Il ministro Gianluca Galletti, post-democristiano di buon senso, ha pienamente ragione: “L’entrata in vigore della normativa ambientale sugli shopper ultraleggeri -ha detto ieri – è un atto di civiltà ecologica che pone l’Italia all’avanguardia nel mondo nella protezione del territorio e del mare dall’inquinamento da plastiche e microplastiche”. E ha aggiunto: “Le polemiche sul pagamento di uno o due centesimi a busta sono solo un’occasione di strumentalizzazione elettorale”. D’accordo, ministro. Ma com’è potuto accadere che una norma giusta, per una volta all’avanguardia in Europa, dal peso economico veramente modesto – non diciamo irrilevante solo per riguardo verso i veri poveri – sia diventata una pietra dello scandalo?



A ripercorrere le ricostruzioni più precise si scopre un “loop” burocratico, tra norme-cornice europee e norma applicativa italiana che ha scatenato una tempesta in un sacchetto. Proviamoci. Dunque, dal 1° gennaio scorso – in un turbine di rincari tariffari veri, gravi e parzialmente immotivati, come quello dell’energia elettrica, del gas e delle autostrade – è entrata in vigore una legge approvata lo scorso agosto, che attua una regola europea, e che prescrive che i sacchetti di plastica leggeri e ultraleggeri, sottilissimi – impiegati nei supermercati per imbustare frutta e verdura e a volte carne e salumi – siano biodegradabili. E fin qui, tutto bene.



Il busillis è nato su un altro punto. La stessa legge italiana prescrive che questi sacchetti vengano pagati dai consumatori. Proprio così. Pochissimo – appena 1-2 centesimi ciascuno – ma pagati. Specificamente pagati, con evidenza del microprezzo nello scontrino finale che viene emesso e appunto pagato alla cassa. E perché mai? Non sarebbe stato più logico ritoccare in maniera impercettibile i prezzi degli alimenti, o la tara?

Certo che sì: ma è appunto qui che scatta il paradosso. In un’Europa sventrata dalla Brexit e attraversata da nazionalismi e malesseri di ogni sorta, qualche scienziato sociale da quattro soldi ha deciso che (comma 5 della legge italiana) questi sacchetti vengano pagati esplicitamente dal consumatore: “Le borse di plastica in materiale ultraleggero non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati”. 



E perché? Per indurre i consumatori a utilizzarne il minor numero possibile. Come se uno, per intenderci, quando va a comprare le zucchine ne imbustasse una in ciascun sacchetto, per inquinare di più. Invece, sapendo di dover pagare i sacchetti, si risolvesse a infilarli tutti in un solo sacchetto! Una norma priva di senso.

Per farsi belli e mettersi in mostra, i nostri governanti sono stati iper-corretti. E hanno fatto arrabbiare tutti, non sul “quanto” si pagherà, ma sulla scoperta di dover pagare, che – lasciando fare al mercato, ai commercianti – non sarebbe stata mai formalizzata e, visto il valore irrisorio del rincaro, nessuno se ne sarebbe accorto.

Ora, questa mossa è talmente stupida che la dietrologia e il complottismo nazionali sono scattati inesorabili a caccia del “cui prodest”, perché nessuno crede che la burocrazia possa partorire simili scemenze. Ed è venuto fuori che il gruppo Novamont, presieduto dalla renziana Catia Bastioli (si fa per dire: è una signora che viene da lontano e ha una carriera manageriale e imprenditoriale per sua fortuna del tutto indipendente dalle precarie fortune politiche di Matteo Renzi, che per una volta non sbagliando l’ha nominata presidente di Terna) potrebbe avvantaggiarsi un pochettino, ma roba davvero irrisoria, dalla norma, ammesso che questi rincari fossero significativi, il che appunto non è… Apriti cielo: il sacchetto renziano ha fatto infuriare la polemica.

Ai complottisti va ricordato che la cretinaggine incide sulla realtà molto di più del malaffare.