C’è poco da fare, siamo troppo affezionati al Qe per lasciarlo andare via così, come una storiella estiva che finisce con la prima libecciata di fine agosto. E allora, nonostante i proclami trionfalistici di mezzo board della Bce, teniamocelo stretto ancora per un po’. A dicembre, infatti, l’inflazione è scesa nell’eurozona: stando alla stima preliminare diffusa da Eurostat, lo scorso mese l’inflazione annua è calata all’1,4% dall’1,5% registrato a novembre. Un numero comunque in linea con le attese degli economisti, peccato che abbia deluso l’andamento della componente core dei prezzi al consumo, quella che esclude energia, alimentari e tabacco, e a cui guardano proprio le Banche centrali per rilevare le componenti di fondo dell’inflazione. Infatti, a dicembre l’inflazione core è rimasta stabile allo 0,9% annuo, un numero inferiore alla previsioni degli economisti che si attendevano un aumento dell’1%.
Ci sono poi i dati provvisori dell’Istat, i quali hanno mostrato un indice Nic dei prezzi al consumo lo scorso anno salito dell’1,2%, dopo la flessione del 2016 (-0,1%). Solo a dicembre, l’indice Nic ha registrato un aumento dello 0,4% su base congiunturale e dello 0,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (come a novembre). Ma la stabilità dell’inflazione a dicembre 2017 è la sintesi di dinamiche opposte: l’accelerazione della crescita dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti (+2,8%, da +2,2% di novembre) è infatti bilanciata dal rallentamento della crescita dei prezzi sia dei beni alimentari non lavorati (+2,5%, da +3,2% del mese precedente), sia dei beni energetici non regolamentati (+4,4% da +5,0% di novembre), ha spiegato l’istituto di statistica. Da segnalare, inoltre, che a novembre l’indice dei prezzi alla produzione industriale nell’area euro è cresciuto dello 0,6% su base mensile, mentre è aumentato del 2,8% anno su anno. A ottobre, l’indicatore su base annuale era salito del 2,5%.
Dopo questi dati, il cambio euro/dollaro si è portato a 1,2054, mentre all’ora di pranzo scambiava a 1,2048 e lo spread Btp/Bund restava sotto i 160 punti base, in attesa ora dell’employment report Usa di dicembre che, stando agli economisti avrebbe dovuto confermare il continuo miglioramento del mercato del lavoro statunitense. Gli occupati non agricoli erano infatti previsti in aumento di 200mila unità, dopo le 228mila di novembre, mentre i nuovi sussidi di disoccupazione restano sui minimi dal 1973 e puntano a una dinamica occupazionale ancora solida. Il tasso di disoccupazione avrebbe dovuto essere stabile al 4,1%, per il terzo mese consecutivo. Infine, gli stipendi orari erano previsti in aumento dello 0,3% mese su mese, spinti dall’entrata in vigore di aumenti del salario minimo in molti Stati e dall’eccesso di domanda per i lavoratori qualificati in molte aree.
E com’è andata, invece? Un deludente +148mila unità e con la forza lavora inchiodata al 62,7% del totale della popolazione. Comunque sia, numeri stellari rispetto a parte integrante dell’eurozona, nonostante la componente settoriale continui a mostrare una prevalenza di attività a basso livello salariale o di tutela oppure quelle strettamente legate a quell’Obamacare che Donald Trump sta per smantellare nell’ambito della riforma fiscale.
C’è però un altro dato che è stato reso noto ieri e che temo non godrà di particolare interesse da parte dei media, mentre ci dice molto su quanto vada ridimensionata non solo la narrativa dell’occupazione negli Usa e dell’esuberanza dei mercati equity, ma della stessa sostenibilità sul breve delle dinamiche su cui si regge la politica economica e monetaria Usa di fatto bilanciere di quella globale. Questo grafico vale l’intero articolo: nonostante un dollaro molto debole e ancora in svalutazione sull’euro ieri, il deficit commerciale Usa è salito sopra quota 50 miliardi, il dato peggiore dal gennaio 2012. Di più, al netto della voce petrolifera ci troviamo forse di fronte al peggior deficit nella storia statunitense recente.
Il tutto, con un dato interno che fa pensare, visto che il dato occupazionale deludente di ieri è imputabile per la gran parte al calo record nel settore portante delle vendite al dettaglio, -20mila unità, sintomo che le continue chiusure di punti vendita dei grandi marchi cominciano a farsi sentire ma solo come preannuncio di quanto accadrà nel corso dell’anno appena iniziato, visto il numero record di chiusure già programmate: tutti posti che verranno assorbiti dal commercio on-line? Ne dubito fortemente, al netto dei dati di Amazon e soci: lo stesso Black Friday non ha portato ciò che si attendeva a livello di volumi di vendite, sintomo di un qualcosa di rotto a livello macro. Un po’ come l’inflazione europea che non prende trazione, ma, anzi, continua il suo flip-flop di alti e bassi.
E cosa significa tutto questo, volendo essere brutali nell’analisi? Che l’architrave globale resta la Cina, lo stesso Paese che ieri ha ammesso di aver sbagliato i calcoli del Pil per il 2016 di 54,2 miliardi di yuan (8,34 miliardi di dollari): nulla che sconvolga, ma rendiamoci conto del fatto che il marcio comincia a intaccare seriamente i fondamentali macro, non solo a millantare gli indici azionari o le previsioni inflazionistiche. Il grande castello di carte sta per cadere, il tutto mentre i media ci vendono la narrativa opposta.
Il mandato schumpeteriano di distruzione creativa che le élites hanno affidato suo malgrado a Donald Trump sta entrando nel vivo: attenzione ai piccoli scostamenti macro e alle dinamiche troppo poco osservate, come i cross azionari. A volte, quando lo stress è ai massimi, basta davvero un granello di sabbia. E un supporto che crolla.