E la Borsa va. Dopo un anno di successi era legittimo attendersi un avvio prudente della stagione finanziaria, all’insegna delle prese di beneficio per monetizzare i lauti profitti Al contrario, il 2018 si è aperto con una vera e propria pioggia di record, a partire dai favolosi massimi di Wal Street che, in sequenza, ha demolito i record del Nasdaq, dell’indice S&P 500 e, buon ultimo, del Dow Jones. Senza dimenticare il primato del Russell 200, la Borsa delle pmi Usa e l’andamento dell’indice Vix o della paura, che segnala la volatilità, mai così in basso.
La corsa ha contagiato tutti i mercati, Europa compresa. Anche la virtuosa Germania che pure va (giustamente) più orgogliosa di un altro record: le lancette dell’orologio del debito pubblico vanno, caso unico al mondo, a ritroso. Ogni secondo che passa vede scendere il debito di 78 euro sul grande tabellone dello Schuldenuhr, gestito dalla Federazione tedesca dei contribuenti (un’analoga iniziativa nel Bel Paese). Un altro dato statistico serve però a consolare noi italiani: secondo Sentix, il centro ricerche che analizza gli umori degli investitori europei, il timore dell’uscita della Penisola dall’area euro è sempre meno diffuso. Un mese fa il 60% circa degli intervistati nutriva dubbi al proposito, oggi solo il 5% crede in una frattura provocata dalla vittoria delle forze euroscettiche, pur assai ben rappresentate. La sensazione dominante, insomma, è che, comunque vadano a finir le cose a marzo, l’Italia non sarà l’attore di una “disruption” di sistema. “Molti politici – si legge in un report di Berenberg – hanno capito che schierarsi contro l’euro non porta voti”. Le occasioni per farci del male, come dimostra la retorica dei partiti, restano quasi infinite. Ma i danni (e i cocci) resteranno in casa, senza troppo danneggiare i partners.
E così, dopo qualche incertezza, la finanza italiana si è accodata al rally degli altri mercati, recuperando terreno con un’improvvisa accelerazione, soprattutto di Fiat Chrysler e di altre grandi aziende legate all’export. Non c’è da stupirsi, visto che, a differenza delle altre Borse, Piazza Afari è ancora molto lontana dai massimi del 2007. La barca, dunque, è destinata a viaggiare un bel po’, sfruttando il vento che soffia dagli Usa di Donald Trump, coprendo l’oceano di bollicine che, per ora, non spaventano i mercati. Ma per quanto tempo ancora? A quando la minaccia della grande Bolla della finanza?
I numeri, per ora, non servono a dare risposte credibili. Un po’ perché il rialzo si accompagna a robusti segnali di ripresa dell’economia, un po’ perché il digitale ha senz’altro cambiato le regole del gioco. Il rischio Bolla, se si escludono i Bitcoin (che tutto sommato fanno per ora più folclore che sostanza), sembra limitato a pochi grandi protagonisti della tecnologia, da Amazon a Google, Facebook o Apple, che per ora hanno ampiamente giustificato le quotazioni in costante crescita. In un certo senso, rispetto alle bolle del passato, stavolta è davvero diverso. All’apparenza perché, come ci hanno insegnato Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, prima o poi che bolle, che si assomigliano sempre, sono destinate a scoppiare.
Andrà così anche stavolta? Donald Trump si attribuisce il merito della corsa delle Borse, alimentata dall’attesa dell’impatto della riforma fiscale sull’economia. Nel frattempo, però, gli ultimi verbali della riunione della Federal Reserve dello scorso dicembre rilevano che le conseguenze della “rivoluzione” trumpiana sull’andamento della crescita saranno tutto sommato modeste. L’apparente contraddizione si spiega così: l’enorme liquidità in circolazione è a caccia di sbocchi ad alto profitto. La finanza è l’approdo naturale, assai di più degli investimenti e della ricerca tecnologica. La riforma di Trump, destinata a moltiplicare i profitti, ma soprattutto a comprimere l’incidenza del fisco sui dividendi e sui buybacks, è destinata ad accelerare il fenomeno a tutto vantaggio di soci di maggioranza e dei vertici societari, i primi beneficiari di bonus e stock options.
È facile prevedere che molti board preferiranno puntare sull’aumento dei guadagni (sicuri) garantiti dal riacquisto di azioni proprie piuttosto che destinare l’enorme cash a disposizione (una corazza che rende le corporations impermeabili all’aumento dei tassi) in investimenti di rischio. La minaccia di una possibile Bolla futura sta proprio qui, in un gigantesco conflitto di interessi tra i vantaggi per i pochi beneficiati dalla grande ricchezza e i limiti alla crescita nel nome dell’interesse di lavoratori, comunità locali, stati, cioè di quello che in tempo erano gli stateholders, ormai sacrificati sull’altare di utili concentrati sempre di più in meno mani.