È legittimo domandarsi, come fanno numerosi commentatori, se l’Italia non finirà nell’angolo, nel contesto europeo, a ragione della strategia franco-tedesca. Il 4 gennaio è stato annunciato, contemporaneamente, da Berlino e da Parigi che il 22 gennaio, nel cinquantacinquesimo anniversario del Trattato dell’Eliseo (firmato da Konrad Adenauer e da Charles De Gaulle), l’Assemblea nazionale francese e il Bundestag tedesco voteranno simultaneamente una risoluzione per potenziare l’integrazione economica (e politica) tra i due Paesi che diventeranno un motore più forte per l’Unione europea. Anche a costo di lasciare indietro, e pure di fare uscire, qualcuno che non possa e non voglia tenere il passo.
Il negoziato che ha portato alla stesura della risoluzione comune dei Parlamenti di Francia e Germania è stato effettuato in grande riservatezza, tenendo completamente all’oscuro gli altri partner dell’Ue. Da un lato, la decisione di “aggiornare” il Trattato dell’Eliseo può essere interpretata come la constatazione di un mero stato di fatto: i Paesi dell’Ue non possono o non vogliono giungere a un’Unione sempre più stretta (come recita il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007). Già molto prima di allora, gruppi di Stati dell’Ue avevano stipulato accordi come quelli per l’unione monetaria (Trattato di Maastricht) e per libera circolazione (Trattato di Schengen). Su numerosi temi essenziali per l’integrazione (alcuni come la politica per l’immigrazione, particolarmente importanti per l’Italia) il “gruppo di Visegrad” (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria) viaggia da tempo per conto suo. Quindi, un’Europa a più velocità è nella realtà delle cose e “l’aggiornamento” del Trattato dell’Eliseo non sarebbe che una mera “presa d’atto”. Da un altro lato, la decisione di Francia e Germania può essere letta come la volontà di attuare uno stretto coordinamento delle loro politiche economiche e di basare su tale coordinamento il “nocciolo duro” dell’Ue, dando un ruolo sempre meno significativo, nelle strategie europee, ai Paesi che non vogliono o non possono reggere il passo.
In ambedue le ipotesi, a mio avviso, nel contesto Ue, l’Italia avrebbe un ruolo secondario e subordinato. Nella prima ipotesi, in quanto conseguenza della “presa d’atto”. Nella seconda, in quanto risultato di una chiara decisione dei due azionisti di maggioranza di non considerarci all’altezza. Lo dimostra il fatto che mentre venimmo consultati ai tempi della preparazione del Trattato dell’Eliseo (che il Governo italiano dell’epoca salutò con gioia dato che sanciva la riconciliazione tra i due Stati dopo decenni di guerre tra le sue sponde del Reno), questa volta nessuno ha alzato il telefono per avvisare il nostro Presidente del Consiglio, il nostro ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale, o anche solamente i nostri ambasciatori a Berlino, a Parigi e a Bruxelles. Questa è prova molto più significativa degli abbracci televisivi tra i nostri Presidente del Consiglio, da un canto, e il Cancelliere tedesco e il Presidente francese, dall’altro.
I nodi principali sono la bassa crescita, la stagnazione della produttività e soprattutto il peso del debito pubblico che ci rendono fragili e poco affidabili. Dal 2014 a oggi il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro, mentre quello della Germania è diminuito di 63 miliardi. È questo uno dei dati emersi da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, elaborando dati della Banca centrale europea, analizza l’andamento dei debiti sovrani dal 2014 al 2017 delle cinque principali economie europee. La conferma è venuta il 5 gennaio dallo stesso Istat nel Conto Trimestrale delle Amministrazioni Pubbliche.
Lo scenario è inquietante e coinvolge anche il resto dell’Ue poiché in prospettiva l’Italia appare come l’anello debole da cui potrebbe partire una crisi finanziaria che, inevitabilmente, coinvolgerebbe gli altri, mettendo a repentaglio la stessa Unione. Da un canto, il Quantitave easing, che ha contribuito in misura essenziale al collocamento dei nostri titoli di Stato, sta per essere dimezzato in intensità. Dall’altro, i tassi d’interesse si prospettano in rialzo in tutto il mondo. Rendendo più pesante il nostro debito pubblico. Da un altro ancora, i programmi di politica economica dei partiti che si apprestano alle prossime elezioni non sembrano mirati alla soluzione di questo problema, aggravato nell’ultima legislatura. Non c’è neanche una proposta di rivisitazione della spesa pubblica per renderla più efficiente e più efficace, tagliando i rami secchi.
In un libro recente Euxit, uscita di sicurezza per l’Europa (in uscita anche inglese), un europeista convinto come Roberto Sommella, direttore delle relazioni esterne dell’Antitrust, fondatore dell’Associazione Nuova Europa e cittadino onorario di Ventotene sostiene che c’è un’unica strada per controbattere le tesi di chi vorrebbe tornare a confini e monete nazionali, in un momento dove tutte le elezioni sono un referendum sull’euro e sull’Ue: la convocazione di una grande Conferenza che abbia all’ordine del giorno la redazione di una Costituzione europea, il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo, la riforma della legge elettorale con espressa scelta del Presidente della Commissione da parte dell’elettorato. Solo così l’Ue potrà essere una vera Federazione, abbandonando una terra di mezzo che ricorda i presupposti che hanno portato all’implosione della ex Jugoslavia e dell’Unione Sovietica. Rispetto a questa visione, la decisione di Francia e Germania rappresenta un passo indietro: un nocciolo duro ben integrato e “satelliti” aggregati e monitorati anche perché per anni non mantenuto i patti.