La scorsa settimana vi facevo notare come la data del 4 gennaio fosse da segnare sul calendario con la matita rossa, un qualcosa destinato a restare nel tempo. E non per l’euforia generalizzata delle Borse mondiali che si registrò quel giorno, bensì per l’esatto contrario: quel concentrato di follia debitoria e monetarista era giunto all’acme, da quel momento poteva soltanto creare i prodromi di un bust da ciclo economico. Il tutto, al netto di nuovi record degli indici che, certamente, ci saranno ancora per un po’. Bene, le giornate da segnare non sono finite. E una è quella odierna, come ci mostra il grafico sottostante: gli amanti dei precedenti storici e, ancor più, quelli del mercato permanente rialzista che stiamo vivendo, sono avvisati. La prima settimana – corta – del 2018 è stata la migliore per il Nasdaq dal 2004, ma tutti gli indici hanno brindato in quei giorni: tra l’ultima settimana di dicembre e la prima di gennaio, Bloomberg fa però notare che lo Standard&Poor’s 500 ha sempre operato un reverse di posizione dal 2011 in poi.
Spiegazione? La fine di alcune politiche governative al 31 dicembre, ad esempio. Bene, quest’anno dopo 4 giorni di trading lo Standard&Poor’s 500 è su del 2,6% da inizio anno, la migliore partenza dal 2006. Ma non basta: storicamente, dal 1950 se i primi 5 giorni di trading sono con chiusure superiori al 2%, lo Standard&Poor’s a livello di performance annuale ha segnato un ritorno medio del +18,6% per 15 volte su 15. Insomma, oggi è il quinto giorno di trading dell’anno e la sua chiusura, in base alle statistiche, potrebbe dirci parecchio. Certo, sempre statisticamente gennaio è di suo un mese molto forte, con un ritorno medio dell’1,2% a partire dal 1928: un gennaio positivo garantisce infatti un anno in rialzo all’86% delle possibilità, con un return medio del 17% e un +13% di price return. Al contrario, un gennaio negativo porta statisticamente a un anno in rosso nel 47% dei casi con un return del +2% e un price return del-1%.
Ma attenzione, perché le date “storiche” si sprecano in questi giorni di inizio anno. E un’altra ci è portata dal Giappone, dove sta accadendo qualcosa di straordinario. Anzi, vista la modalità operativa delle Banche centrali, non troppo straordinario, se prendiamo in esame solo l’accezione positiva del termine. Prima, mettiamo un attimo in prospettiva il tutto. Da una parte abbiamo il governatore della Bank of Japan, Haruhiko Kuroda, il quale continua a ribadire che l’istituto di cui è alla guida continuerà a mantenere pazientemente la sua politica monetaria ultra-accomodante: l’ultima volta è stata non più tardi del 3 gennaio, quando ha tenuto il suo primo discorso dell’anno. Per Kuroda, l’economia sta espandendosi in maniera solida, ma la mentalità deflazionistica dei giapponesi è difficile da sconfiggere. Di più, il 20 dicembre, quando il board della BoJ decise di mantenere i tassi a breve termine al -0,1% e il target di rendimento del bond sovrano decennale solo frazionalmente sopra lo 0%, Kuroda rispose per le rime ai critici che facevano notare come una politica monetaria accomodante di così lungo termine potesse destabilizzare il sistema bancario: «Il nostro obiettivo più importante è raggiungere il 2% di inflazione il prima possibile», tagliò corto.
Dall’altra parte, però, abbiamo quanto segnalato nel grafico: stando ai dati resi pubblici proprio ieri, dopo anni di acquisti onnivori, la Bank of Japan ha mostrato a tutti lo stigma, ovvero gli assets totali nel suo bilancio sono scesi di 444 miliardi di yen (3,9 miliardi di dollari) dalla fine di novembre al 31 dicembre, data in cui il totale era a 521,416 triliardi di yen. Ancorché piccolo, l’ammontare di calo rappresenta la prima decrescita mese su mese da quando è iniziato l’Abenomics a fine 2012. Certo, si tratta di un decremento infinitesimale rispetto a un piano di acquisto che la BoJ chiamò “Qqe” – Qualitative and Quantitative Easing – proprio per distinguerlo dal Qe semplice che all’epoca stava operando la Fed e sotto il quale sono stati comprati il corrispettivo di triliardi di dollari di debito sovrano, bond corporate, Reit fino agli Etf equity, ma proprio per questo è fortemente simbolico: è un piccolo varco del Rubicone, un minimo scoperchiamento – giusto per dare un’occhiata all’effetto che fa – del vaso di Pandora.
Insomma, una data da segnare in rosso anche quella di ieri. Perché stiamo comunque parlando di un qualcosa che sta maneggiando il primo debito pubblico del mondo, il 250% del Pil giapponese al 31 dicembre 2016, detenuto ormai nella sua quasi totalità da Bank of Japan e istituzioni statali nipponiche come il Government Pension and Investment Fund: per quanto Kuroda abbia garantito che si andrà avanti fino all’ormai mitologico 2% di inflazione, i dati parlano di un primo decremento, quasi un segnale che l’urgenza onnivora sia finita. Il tutto, mentre la Fed si avvia al quarto aumento dei tassi e la Bce manda segnali contradditori sulla fine reale del Qe, avendo comunque annunciato un decremento nel volume di acquisti per poter allungare l’orizzonte temporale operativo. Il mercato, irretito dalla narrativa del rally innescato da Donald Trump e dalla sua riforma fiscale, ignorerà anche questo segnale, non facendo un plissé?
Già stasera, con la chiusura di Wall Street, avremo una parziale risposta, almeno in merito alla mera statistica. Entro marzo, quando la Bce sarà chiamata a una parola definitiva, potremo capirne di più. Attenzione, però, alle sorprese.