Prosegue il lavoro di messa a punto della Legge di bilancio da parte del Governo, ma la Nota di aggiornamento al Def non sembra essere stata ben digerita né dall’Europa, né dai mercati, né da enti e istituzioni con l’Ufficio parlamentare di Bilancio e la Banca d’Italia. “La Nadef è però una cosa diversa dalla manovra, deve dare la cornice quadriennale dell’azione del Governo. E l’esecutivo era di fronte a un bivio”, ci dice Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma.



Quale bivio?

Continuare con l’austerità degli ultimi sette anni oppure cambiare rotta. Fortunatamente si è scelta questa seconda strada: rispetto al percorso tracciato da Gentiloni/Padoan, quello del Governo libera risorse per circa 70 miliardi di euro in tre anni. Se fossi un imprenditore, un investitore ne terrei conto. È la fine del Fiscal compact nella sostanza anche se non nella forma, è un segnale che in tanti considereranno positivamente nei loro piani di investimento.



Il giudizio che è stato dato alla Nadef non è apparso però positivo. L’Ufficio parlamentare di bilancio in particolare non ha validato la previsione sul Pil del 2019 giudicandola “eccessivamente ottimistica”…

Faccio parte del comitato scientifico dell’Upb e posso dire che i suoi modelli econometrici, come quelli della Banca d’Italia e di altri enti e istituzioni, non riescono a tenere conto dell’impatto sulle aspettative del Fiscal compact. Cioè, se si dicesse che il deficit nel 2020-21 scenderà ulteriormente (seguendo quindi il percorso di rientro che facevano Gentiloni e Padoan), secondo questi modelli tale dato così importante per le scelte degli imprenditori e per i loro investimenti non avrebbe nessun impatto sull’oggi. Il che spiega perché negli anni dell’austerità le previsioni sulla crescita si siano rivelate tutte sovrastimate. Se questo è vero, vale però anche il contrario: cioè, se una manovra nel lungo periodo è particolarmente espansiva, libera risorse, questo effetto potenzialmente positivo sull’immediato non viene considerato dai moltiplicatori dell’Upb o di altri enti e organismi. 



Dunque dobbiamo attenderci una crescita del Pil pari a quella stimata dal Governo?

No, non basta liberare 70 miliardi per far aumentare magicamente il Pil: bisogna usare bene queste risorse. Io non sono a favore del reddito di cittadinanza, non perché sia contrario a una cosa importantissima che sottosta a tale misura, cioè l’andare incontro alle sofferenze delle persone che hanno più subito la crisi degli ultimi sette anni, che anzi ritengo una priorità. Il punto è che non bisogna mettere in campo dei meri trasferimenti. Come si è visto nel caso degli 80 euro di Renzi, il loro impatto può dipendere dalla propensione al consumo dei beneficiari. Inoltre, non prevedono una cosa essenziale per ristabilire l’ottimismo e la speranza, che è il lavoro. Non sono cioè condizionati fortemente all’ingresso nel mondo del lavoro. 

Come si può allora intervenire su quella che lei stesso ritiene una priorità?

Ci sono strumenti che vengono incontro alla fascia meno abbiente della popolazione che danno lavoro e che danno certezza che si convertano in crescita del Pil e dell’occupazione: si chiamano investimenti pubblici. E andrebbero fatti soprattutto al Sud e nell’edilizia. Se nel dibattito sulla Legge di bilancio che si svolgerà in Parlamento gli investimenti pubblici riacquisteranno peso particolare, penso che potremmo aspettarci una crescita del Pil al 2%. Se invece la manovra sarà centrata sul reddito di cittadinanza, temo che perderemo una grande occasione. Non penso che faremo peggio di quanto è stato fatto sinora, ma non sfrutteremo l’opportunità di mostrare in sede europea la bontà dell’azione del Governo. E anche per dare un segnale ai mercati. 

Difficile però immaginare che il Movimento 5 Stelle faccia un passo indietro sul reddito di cittadinanza. Pensa che a quel punto ci troveremo con uno spread elevato, una forte difficoltà sul mercato per il nostro debito pubblico e tutto quello che ne può conseguire?

Il livello dello spread dipenderà molto dalla percezione che si trarrà dal dialogo che ci sarà tra Europa e Italia, perché gli spread sono servi della politica. Se la politica dà un segnale positivo, i mercati si adeguano. L’Europa deve capire che non può stare più in piedi se non viene incontro alle difficoltà delle fasce più deboli con operazioni forti di solidarietà. Il caso americano mostra che se si interviene anche per soddisfare le esigenze delle fasce più deboli, come ha fatto Trump, nonostante l’alto deficit i mercati poi non reagiscono male se sentono una volontà politica forte. Volontà che manca ora in Europa e forse il momento elettorale può essere quello migliore per far capire che occorre un segnale nuovo. La salvezza dell’Ue può passare proprio dall’Italia. 

In che modo?

Magari con un compromesso: meno reddito di cittadinanza, più investimenti pubblici. A quel punto avremmo un’Ue che si potrà dichiarare vincitrice e un’Italia che, dentro l’Europa, potrà dichiararsi altrettanto vincitrice e dei mercati che reagiranno positivamente. Questo ovviamente richiede un lavoro di diplomazia importante.

Lei ha sottolineato l’importanza degli investimenti pubblici. Può essere utile in questo senso l’iniziativa presa dal Premier Conte di convocare gli amministratori delegati delle principali società partecipate dallo Stato? Il Governo potrebbe esercitare una sorta di moral suasion per spingere queste aziende a fare investimenti…

C’è bisogno di impattare sulle aspettative in maniera forte. Le pressioni poco trasparenti, nel senso di poco visibili, non sono mai servite. C’è bisogno di appalti pubblici a gogo, anche rapidi, con una classe di dirigenti pubblici ben pagata per questo lavoro importante. Bisogna fare quello che fece Roosevelt negli Usa. Costruiamo ponti, case adeguate in zone sismiche, scuole sicure, ecc. Abbiamo gli strumenti normativi per farlo. Dunque spetta al Governo trovarvi un spazio dentro la manovra, per esempio con un piano straordinario di edilizia scolastica. Bisogna colpire le aspettative, uscire dal circolo vizioso del pessimismo. E questo si fa con una sola cosa: rimettendo al centro del progetto il lavoro e la dignità dell’uomo, quindi con una buona occupazione.

(Lorenzo Torrisi)