Mario Draghi alla conferenza finale del meeting del Fmi a Bali, con una buona dose di pazienza, invita ad “aspettare i fatti, attendere come questa manovra verrà fuori esattamente”. In teoria non c’è più molto da aspettare. Domani finalmente sapremo: dopo il Consiglio dei ministri sarà chiaro se il cosiddetto reddito di cittadinanza e le pensioni a Quota 100 slittano a primavera, se il condono sarà ampio e indiscriminato, se vengono accantonate risorse per salvare l’Alitalia o persino le banche nel caso in cui lo spread dovesse diventare insostenibile, sapremo se cadrà sulle nostre teste la solita grandinata di gabelle e se è previsto quell’aiuto che il Governo chiede adesso agli italiani (patrimoniale, prelievo straordinario, taglio sui redditi più elevati o cos’altro). Insomma, capiremo finalmente a che cosa corrispondono le tante parole spese finora. O forse no, non tutto, non ancora, visto che si parla di un decretone fiscale rinviando poi ai vari provvedimenti ad hoc e ai “miglioramenti” in sede di dibattito parlamentare.
La polemica finora si è concentrata sulle cifre, in particolare sul 2,4% come obiettivo per il deficit in rapporto al prodotto lordo. In realtà rischia di essere una discussione che porta in un vicolo cieco. Ciò vale sia per l’Unione europea, sia per il Governo italiano. A Bruxelles si sono fissati sulla cornice senza guardare al contenuto. Avrebbero potuto, invece, sospendere il giudizio sul deficit e le sue derivate, per discutere nel concreto l’impatto delle misure. Alla politica spettano senza dubbio le scelte di merito, l’intera politica fiscale è ancora prerogativa dei singoli governi. Ma le sue conseguenze no, quelle riguardano tutti: nessuno è un’isola, tanto meno in un organismo che si chiama (più o meno a proposito) Unione. Il Governo italiano, dal canto suo, avrebbe potuto spiegare sia all’Ue, sia al Fondo monetario internazionale che stringere i cordoni della borsa proprio mentre si prevede un rallentamento dell’economia mondiale (sono le stime dello stesso Fmi) avrebbe aperto la porta a una nuova recessione che avrebbe trascinato in basso anche la Germania e la Francia con le quali l’economia italiana è strettamente intrecciata.
A favore del 2,4% si è speso anche Antonio Fazio: l’ex governatore della Banca d’Italia ha calcolato che se il disavanzo scendesse all’1,6%, come previsto in un primo tempo, si ridurrebbe anche la crescita con un effetto boomerang sul debito, ancor maggiore se la congiuntura mondiale peggiorerà. Ciò non toglie che le stime del Governo sul Pil siano ottimistiche e questo forse è il vero punto debole dell’intera manovra, perché se quel 0,8% di deficit aggiuntivo non genera più crescita, è chiaro che verranno a mancare le risorse sia per le pensioni, sia per il cosiddetto reddito di cittadinanza.
E qui veniamo ai singoli contenuti. Un gran punto debole è aver accantonato, da parte della Lega, la riduzione delle tasse, il vero incentivo alla crescita della domanda sia per consumi, sia per investimenti. La flat tax, cioè l’imposta ad aliquota unica e proporzionale con la quale la Lega ha preso i voti, è irrealizzabile, ma di qui ad accettare che la pressione fiscale resti allo stesso livello degli anni scorsi, salvo qualche ritocchino ininfluente, ce ne corre. Lo stesso condono (vedremo di che natura ed entità) non serve a ridurre il peso delle imposte sul reddito. A parte il fatto che il gettito per l’erario è sempre incerto come hanno dimostrato tutti i condoni “tombali” varati nel passato.
Visto il flop fiscale, Salvini ha virato rapidamente sull’altra promessa: cancellare la legge Fornero. Anche qui, però, deve fare un bagno di realtà. Quota 100 diventa flessibile, per lo più in alto. E dire che si liberano posti per i giovani è mistificante: altro che uno a uno, se va bene potrebbe essere uno ogni tre che fuoriescono, e in ogni caso ciò accadrà solo dove c’è lavoro. La Lega ha scelto di favorire l’anzianità rispetto alla vecchiaia pensando di aiutare le piccole e mede imprese a liberarsi del personale in sovrappiù, in realtà favorisce i dipendenti pubblici perché saranno soprattutto loro nell’immediato a usufruire del nuovo regime. Non solo: la fuoriuscita provocherà una riduzione delle entrate fiscali, secondo alcune stime si parla di ben 8 miliardi che doppiano il costo della operazione.
Quanto al reddito di cittadinanza, dovrebbe costare 9 miliardi ed è legato a un grande incognita anch’essa costosa: il buon funzionamento dei Centri per l’impiego. Un’operazione giusta e necessaria, sia chiaro, così come mettere ordine all’assegno di disoccupazione e a tutti gli altri ammortizzatori sociali, compresa la cassa integrazione. Ma non si sa se, come e quando i centri saranno davvero in funzione e allo stato attuale non si capisce chi davvero potrà percepire la nuova indennità. Accortosi di non essere in grado di dare quel che ha promesso, Luigi Di Maio ha scelto di alzare sempre e comunque un polverone. Chiama le aziende a partecipazione statale e fa filtrare il messaggio che ha ottenuto da loro più investimenti, più occupazione e acquisto di titoli pubblici. Salvo poi essere smentito dalle dichiarazioni dei top manager. Presenta in pompa magna un progetto strampalato per salvare l’Alitalia con le Ferrovie, dice che ci vorranno 2 miliardi per la newco, la società buona, dimenticando di aggiungere che la società cattiva dove saranno concentrate le perdite avrà bisogno di almeno 3 miliardi, soprattutto se, come sostiene il bi-ministro, saranno salvati tutti i dipendenti. Di Maio prende impegni per conto dell’azionista Tesoro e persino il paziente Tria questa volta perde le staffe.
E qui veniamo all’altra grande incognita che contribuisce a innervosire l’Ue, i mercati e non solo loro. Per l’ennesima volta, Di Maio “licenzia” verbalmente Tria il quale, per la verità è messo sotto tiro anche dalla Lega. Difficile sapere quanto resisterà il ministro dell’Economia, ma a Roma le voci fuori scena parlano di dimissioni dopo il varo della Legge di bilancio, forse ancor prima. E circola già il solito toto-ministri che vede scontrarsi di nuovo M5S e Lega. Per i grillini si parla dell’economista Andrea Roventini, ma i leghisti hanno altro in mente, scalda i motori il sottosegretario Massimo Garavaglia, senza dimenticare il più titolato Giancarlo Giorgetti. A meno che non sia la volta buona per una spallata al presidente Sergio Mattarella rilanciando Paolo Savona che in Parlamento parla come vero autore della manovra.
Tutto questo non fa che aumentare l’incertezza sul Governo e sulla sua rotta. Pochi pensano che potrà succedere qualcosa di definitivo prima delle elezioni europee il maggio prossimo, ma tutti gli analisti sono convinti che di qui ad allora questa campagna elettorale permanente vedrà un continuo gioco al rialzo tra Salvini e Di Maio che solleverà tanta polvere e tanto fumo, senza portare a casa nessun arrosto.