Stando alle informazioni attualmente in possesso, il reddito di cittadinanza resta uno strumento di mero assistenzialismo? Quali sono, se ci sono, i suoi punti di forza nel contrasto alla povertà? E i punti critici da considerare ed, eventualmente, correggere per aumentarne l’efficacia sul versante delle politiche attive per l’occupabilità delle persone? E soprattutto: essendo, appunto, una sorta di “welfare Ogm” (“un po’ sussidio, un po’ politica attiva del lavoro”, copyright Alberto Orioli, vicedirettore del Sole 24 Ore), c’è la possibilità di rafforzarlo ulteriormente, incrementando l’effetto moltiplicatore di una misura su cui il governo – tra reddito di cittadinanza e pensioni di cittadinanza – investirà 16 miliardi di euro?



Alla vigilia della presentazione della manovra del governo giallo-verde, abbiamo girato i quesiti che ancora aleggiano sul reddito di cittadinanza a Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, che da anni studia con passione e rigore scientifico redditi, consumi e povertà delle famiglie. “Utilizzare la povertà assoluta e non quella relativa come indice di riferimento è senz’altro positivo – esordisce Campiglio -, anche se la questione dell’abitazione di proprietà resta un aspetto molto scivoloso. L’intento del reddito di cittadinanza è nel complesso nobile, ma sulla sua applicazione il governo dovrà prestare molta attenzione, perché bisogna mettere nel conto che, pur con la dovuta accuratezza, qualche errore si verificherà. L’importante sarà vigilare ed evitare, come invece dimostrano le indagini sull’Isee, che gli errori diventano un fenomeno diffuso, di massa. Qualora, poi, si riuscisse a far sì che il reddito di cittadinanza diventi un investimento a favore della manutenzione e messa in sicurezza del territorio, diventerebbe uno strumento molto interessante, perché, potendo anche convogliare fondi europei, a quel punto darebbe una grossa spinta agli investimenti e alla crescita dell’intero Paese”.



Professore, secondo lei, il reddito di cittadinanza potrebbe quindi funzionare?

Una premessa. Il reddito di cittadinanza, così come è stato finora presentato, mostra forti analogie con i principali programmi federali Usa che riguardano più aree di preoccupazione sociale. C’è un Sud anche negli Stati Uniti: Mississippi, Louisiana, New Mexico sono stati dove non si concentrano solo gli uragani, ma anche una parte rilevante dei programmi federali di trasferimento di reddito per affrontare il problema della povertà e delle minoranze svantaggiate.

Come intervengono negli Stati Uniti?

All’inizio della guerra alla povertà lanciata sotto la presidenza Johnson, gli Usa ebbero un grande impatto positivo iniziale. Ma, ormai da oltre 10-15 anni, è come se si fosse raggiunto uno zoccolo duro della povertà difficile da scalfire. Il dato di partenza è: come viene calcolata la soglia di povertà? Negli Usa utilizzano un criterio un po’ rozzo, ma comprensibile: si prende la spesa per un paniere alimentare dignitoso e la si moltiplica per tre. Quel valore, poi, viene differenziato per tipologia di nuclei famigliari e non per aree geografiche. Quindi in America l’indagine prende in considerazione il consumo alimentare e non il risparmio, che è zero. Il che non è un criterio fuori posto.



Può valere anche per noi?

Sì, perché nei livelli più bassi di reddito, il primo e il secondo decile, il risparmio delle famiglie italiane è addirittura negativo, cioè per gli acquisti ci si si indebita oppure si deve ricorrere a trasferimenti famigliari. L’impressione che ricavo, sempre stando a ciò che sappiamo, è che il reddito di cittadinanza sia costruito a partire dall’indagine sulla povertà assoluta. E qui occorre operare subito una distinzione.

Quale?

Bisogna distinguere tra pensioni di cittadinanza, che potrebbero entrare in vigore subito nel 2019, e reddito di cittadinanza, il cui avvio è previsto dal prossimo aprile.

Partiamo dalle pensioni di cittadinanza. Che ne pensa?

Prendiamo, per esempio, la soglia di povertà assoluta per una persona di 75 anni o più, riferita a un residente al Nord in aree metropolitane: la voce ammonta a 753 euro, praticamente una cifra identica a quella del reddito di cittadinanza. Cifra che per due persone sale a 1.010 euro, non lontana dai 1.170 previsti dalla nuova misura del governo.

Morale?

Con qualche aggiustamento, ho la netta sensazione che l’indagine sulla povertà assoluta dell’Istat sia la base di riferimento, e questo va bene. L’indagine Istat, infatti, ha una disaggregazione straordinaria, migliore di quella americana, il che consente di individuare le categorie importanti da aiutare. E qui emerge subito un primo aspetto: le cifre della pensione di cittadinanza sono molto elevate.

Perché?

Ripeto: se l’indagine di riferimento è quella sulla povertà assoluta, bisogna allora considerare una distinzione non solo geografica – Nord, Centro e Sud –, ma anche fra aree metropolitane, grandi Comuni e piccoli Comuni. Ci sono notevoli differenze.

Faccia un esempio.

I 753 euro di cui parlavamo prima, cioè la soglia di povertà di un residente di 75 anni e oltre residente al Nord nelle grandi aree metropolitane, in un piccolo Comune, sempre al Nord, scendono a 668 euro, e se andiamo al Sud, nelle aree metropolitane, si riduce ulteriormente a 497 euro.

Cosa significa tutto ciò?

Al Sud, mediamente, il livello dei prezzi è più basso e quindi per mantenere il medesimo tenore di vita, spostandosi al Nord, serve un reddito maggiore a parità di paniere di consumo. E arriviamo a un secondo aspetto da tenere presente, valido per il reddito di cittadinanza ma non per la pensione di cittadinanza.

A cosa si riferisce?

Se si ha una casa di proprietà, vengono imputati 400 euro di affitto ipotetico. A quel punto, i 780 euro diventano 380. E la questione si fa molto più scivolosa. Immagini, per esempio, la situazione, che è diffusa nel nostro Paese, di una pensionata donna, che vive nella casa in cui si è sposata, ma è rimasta vedova e i figli se ne sono andati. Vive quindi in una casa di proprietà, diciamo così, più grande e paga spese rilevanti: per il primo e secondo decile di reddito, infatti, l’impatto delle spese vive per l’abitazione è davvero elevato. Ecco una delle prime questioni delicate di cui si deve tener conto nell’applicazione del reddito di cittadinanza. Se è proprietaria, cosa fa, vende? O fa ricorso ad altri meccanismi finanziari, tipo vendita nuda proprietà, che personalmente non amo molto?

Sta dicendo che per gestire il reddito di cittadinanza il nodo delle informazioni dettagliate su redditi e consumi è cruciale?

Sì, se si vuole introdurre una misura come questa, abbiamo bisogno di conoscere meglio, in dettaglio, la condizione economica, perché in Italia alcuni la manifestano e altri no. Quindi, gioco forza, dobbiamo pensare anche all’evasione fiscale.

Che cosa c’entra l’evasione fiscale?

A parte il fatto che il tema sembra sparito dai radar della manovra, gli strumenti conoscitivi per ridurre in modo significativo l’evasione fiscale esistono e potrebbero essere davvero una fonte di finanziamento per reddito di cittadinanza e pensioni di cittadinanza. Non solo: se parliamo di informazioni, è impossibile avere centralmente i dati necessari per raggiungere chi – in fatto di pensioni di cittadinanza – ha veramente bisogno. La probabilità di errori, voluti o involontari, non è banale. Negli Usa, che pure fanno statistiche su tutto, almeno il 10% delle somme per il contrasto alla povertà sono state erogate erroneamente. Bisogna, quindi, partire dall’idea di decentrare non tanto la corresponsione del beneficio, ma almeno la raccolta di informazioni utili per evitare errori, coinvolgendo anche soggetti non profit.

Una sorta di collaborazione pubblico/non profit?

Esattamente. Perché povertà vuol dire eterogeneità delle situazioni, tutte meritevoli di risposte giuste. O almeno bisognerebbe tentare di farlo.

Di Maio ha minacciato i “furbetti” del reddito di cittadinanza, che rischiano fino a 6 anni di carcere…

Non basta minacciare il carcere, è un po’ fuori luogo.

E sul reddito di cittadinanza per le persone in età di lavoro che cosa dice?

Assomiglia molto a un sostegno per i cosiddetti working poor’s, cioè quelle persone che hanno un reddito da lavoro talmente basso da non consentire alle persone o alla famiglia una vita dignitosa. Ma anche qui sorgono tante domande.

Per esempio?

Una famiglia che ha stipulato un mutuo e si è indebitata per acquistare un’abitazione, come viene trattata? Viene considerata una famiglia che ha una casa di proprietà? Se ha fatto un mutuo ventennale e ha già pagato rate per 19 anni, le vengono computati i 400 euro della casa in proprietà? E se ha iniziato a pagare da un anno? E se il mutuo non è stato pagato e la famiglia è stata sfrattata, che succede? Nei centri urbani, poi, la questione dell’abitazione diventa ancora più delicata, perché si parla di alloggi popolari, spesso trascurati e dove non mancano comportamenti, in alcuni ambiti, poco trasparenti. Infine, una casa può essere piccola ma accogliente oppure piccola e fatiscente, e in tal caso la storia cambia.

Qual è la sua preoccupazione?

Che l’applicazione, per quanto accurata, dei criteri di ammissibilità del reddito di cittadinanza possa realizzare il sommo di giustizia formale, ma non sostanziale.

Che ruolo possono giocare i Centri per l’impiego?

I Centri per l’impiego oggi ricevono offerte soprattutto da piccole imprese, ma poi cosa fanno? Esperienze estere, come in Gran Bretagna, dimostrano che non hanno funzionato granché bene. Tenendo conto che non è stato affrontato il nodo del salario minimo, se un’impresa avanza una proposta di lavoro non congrua come modalità e livello di reddito, che fa il Centro per l’impiego, la propone oppure no? Su che base propone il contratto? Si pagheranno i contributi? Chi verifica tutto ciò? Insomma, i Centri per l’impiego dovrebbero disporre al loro interno di competenze non solo semplicemente notarili di raccordo fra domanda e offerta di lavoro, altrimenti si corre il rischio che diventino essi stessi involontari canali di proposte che mantengono i lavoratori in una condizione di working poor’s.

Il reddito di cittadinanza è una proposta per combattere un’emergenza sociale. Ma può diventare anche un’efficace politica attiva per l’occupazione e per il rilancio dell’economia?

Quanto più il reddito di cittadinanza potrà prendere la forma di investimento, tanto meglio sarebbe.

Ci spieghi meglio.

Se c’è una cosa di cui il nostro Paese ha bisogno è la manutenzione del territorio. Gli investimenti pubblici sulla manutenzione, che vuol dire intervenire su palazzi e boschi, su strade e fiumi, potrebbe essere un’attività svolta dallo Stato in cui trovano sbocco tutte le qualificazioni e una proficua collaborazione pubblico/privato. Con la manutenzione del territorio l’occupazione “buona” potrebbe crescere alla grande. La risposta ottimale contro la povertà sono gli investimenti pubblici, quindi dobbiamo cercare di mettere in moto quelli necessari e se possibile convogliando anche i fondi europei. Visto che il reddito di cittadinanza ha compiuto un tale cammino che tornare indietro è politicamente improponibile, con questa soluzione si potrebbe coniugare il contrasto all’emergenza sociale con l’obiettivo di far crescere il Paese, generando un impatto moltiplicativo della spesa, che pure già c’è, molto maggiore.

Di Maio ha detto: “con il reddito di cittadinanza abbiamo abolito la povertà”. Non è un’esagerazione?

È un’affermazione un pochino forte. Tenga conto che gli interventi di lotta alla povertà più efficaci sono quelli cosiddetti in natura. Migliorare marginalmente i trasferimenti in natura, diminuiti per via dei continui tagli, costa relativamente e potrebbe rendere di più. Alcuni capitoli di spesa sono davvero fondamentali, come la sanità e l’istruzione, dove conta soprattutto la qualità. Anche la protezione sociale è fatta di consumi e di investimenti.

(Marco Biscella)