“Adesso rompono!”, “Sono ai ferri corti”, “Il bluff è già saltato!”. Fino a ieri era stato un coro, senza neanche una nota stonata, a giudicarlo dalle pagine dei “giornaloni”, come li chiama qualcuno. Macché: Matteo Salvini e Luigi Di Maio sembravano pappa e ciccia, ieri sera, annunciando più o meno a reti unificate l’accordo trovato su tutti i punti di una manovra 2019 che si preannuncia ambiziosa se non velleitaria, ma che ha superato lo scoglio del “fuoco amico” di una maggioranza alquanto eterogenea eppure capace, finora, di smentire tutte le previsioni di implosione.



Intendiamoci, è una manovra “coming soon”, un “prossimamente al cinema”, più che una manovra vera e propria: contiene dei primi passi, più che dei percorsi. Però quei primi passi sono nelle direzioni promesse, e questo non è poco. Adesso comincia la via crucis vera: un confronto con una Commissione europea politicamente arrivata al capolinea, ma proprio per questo – non avendo ormai più nulla da perdere – decisa a vendere cara la pelle della sua severità; le agenzie di rating, che sicuramente declasseranno di mezzo gradino l’Italia per far capire al colto pubblico e all’inclita guarnigione che con gli analisti finanziari di Moody’s e di Standard and Poor’s – massì, gli stessi che davano la tripla A a Lehman Brothers il giorno prima del fallimento! – non si scherza; e poi gli strali supplementari del Fondo monetario, della Banca d’Italia e della Bce che già hanno sparato a zero su quell’embrione di manovra che trapelava dalla Nota di aggiornamento al Documento di programmazione presentata dal Governo Conte due settimane fa.



E dunque? Dunque qua decide la politica, che ha tempi diversi dall’eurocrazia di Bruxelles, però comanda. Per esempio, se Jp Morgan ha detto che la stabilità finanziaria italiana non è poi malaccio, contribuendo non poco a calmierare lo spread, forse è anche perché il miliardario biondo che occupa la Casa Bianca un segnale di riguardo al Governo del suo amico Giuseppe Conte dalla prima banca americana voleva farlo arrivare; e anche Bnp Paribas, seconda banca d’Europa presentissima in Italia attraverso la Bnl, un segnale di serenità ai suoi numerosissimi clienti italiani avrà pur voluto farlo arrivare, se ha ritenuto di poter dire, e dover dire, che a sua volta ha fiducia nel futuro del Bel Paese.



Dunque la politica europea, quella vera, quella degli elettorati, si pronuncerà a maggio, e se lo farà come hanno fatto ieri i bavaresi, c’è da scommettere che dell’equilibrio politico dell’Unione, la socialdemocrazia che ha ratificato negli ultimi vent’anni l’austerity tedesca, non resterà pietra su pietra. Una politica forse utile vent’anni fa, ma oggi dissennata, capace di far arrabbiare perfino i residenti della regione più ricca di tutte, appunto la Baviera. La domanda è: il Governo giallo-verde arriverà vivo ai risultati delle europee di primavera?

Non possiamo saperlo, ma possiamo intanto provare a capire se per lo meno supererà le incognite dell’elettorato rispetto a questa manovra. Ebbene, si direbbe di sì. A volo d’angelo, e prendendoci il beneficio dell’inventario, si può dire che la montagna ha partorito dei topolini, ma sono tutti nati vivi. Quindi: le varie misure, tutte in linea con i titoli del contratto di governo, li attuano solo in modalità incipiente, però cominciano a farlo. È questa la sfida che i giallo-verdi dovevano assolutamente vincere.

C’è la pace fiscale, è un condonino – comunque si voglia chiamarla -, ma è qualcosa; sarà zeppa di errori (e chi non ne farebbe, mettendo il dito in quel vespaio del fisco italiano?), ma è una pace fiscale. Il reddito di cittadinanza mette in gioco 9 miliardi per una platea di cittadini diversa da quella che aveva beccato gli 80 euro di Renzi, e che potrebbe essere ben più riconoscente proprio perché è diversa; ovviamente c’è lo stop totale dell’aumento dell’Iva che sarebbe dovuto scattare dal 2019 e quello parziale per il biennio successivo; c’è il taglio delle pensioni d’oro, sopra i 4.500 euro netti al mese, una gratificazione per l’invidia sociale a fronte della quota 100 per i pensionamenti, cioè il famoso, promesso “superamento della Fornero”, con dei forti deterrenti per chi vorrà anticipare in termini di riduzione dell’assegno (siamo in grado di annunciare, in sede vaticinaria, che domani o dopo l’Inps tuonerà che questa norma fa saltare il sistema, anzi fa scoppiare una pestilenza, o forse la quarta guerra mondiale).

Ah, e poi c’è la flat tax per gli autonomi: solo il 15% di tasse per i professionisti a partita Iva che optano per il regime di trasparenza con ricavi fino a 65.000 euro, e dai 65.000 ai 100.000 euro si pagherebbe un 5% addizionale. Le start up e le attività avviate dagli under 35 avrebbero uno sconto al 5%. Il costo sarà di circa 600 milioni il primo anno e di 1,7 miliardi a regime. E per le imprese? L’aliquota al 24% scenderà di 9 punti sugli investimenti in ricerca e sviluppo, in macchinari e in assunzioni stabili. La misura dovrebbe costare 1,5 miliardi di euro.

Da dove si finanziano tutti questi “assaggini di bengodi”? Tra le altre cose – cioè oltre ai tagli alle pensioni d’oro – con un miliardo di euro l’anno di tagli ai ministeri e meno soldi ai migranti.

Allacciate le cinture, che da domani si balla con le polemiche e le interpretazioni più fiammeggianti, sia perché la maggioranza delle misure presentate ieri non sono assolutamente state capite dai ministri responsabili, perché le hanno scritte gli uffici, e quindi i “danti causa” non saranno capaci di spiegarle e faranno confusione sin dal primo giorno; sia perché chi soffia sul fuoco della speculazione contro i Btp vuole, da oggi a quando – il 26 ottobre – si pronuncerà sui nostri titoli di Stato la Standard and Poor’s, accreditare l’idea che l’azienda Italia così non regge. Non è vero, ma fa comodo dirlo.

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