George Orwell, nel suo misconosciuto Fiorirà l’aspidistra, diceva che la pubblicità è il rumore di un bastone in un secchio di rifiuti. Come dire, conta più l’attenzione suscitata dal chiasso che la fonte di quest’ultimo. Lo stesso vale per le crisi finanziarie: quando le Borse crollano, di fatto, chi opera sui mercati sta già pensando a come capitalizzare sulle macerie e ripartire, mentre il resto del mondo guarda ciò che viene dipinto come l’armageddon consumarsi a puntate nei telegiornali e nei talk-show. È una sorta di logica del fuso orario: i grandi players, vivono le crisi prima. Per due motivi: le vedono partire attraverso segnali impercettibili e intraducibili per l’uomo qualunque. E, non secondario, spesso e volentieri ne creano i presupposti con i loro comportamenti. Le Borse che crollano, lo spread che vola, sono solo lo sfogo in grande stile del morbillo: qualcuno, però, si è accorto che qualcosa non andava osservando la prima, minuscola macchiolina rossa, quella che il 99% del mondo pensa sia una puntura d’insetto o una reazione al bagnoschiuma. 



Chi lanciò per primo l’allarme rispetto alla crisi finanziaria del 2008, ad esempio, non lo fece guardando direttamente al mercato dei mutui immobiliari Usa o all’abitudine ormai planetaria alla cartolarizzazione estrema, ma attraverso un indicatore di stress che ai più non dice nulla: il credito interbancario. Ovvero, il livello di propensione delle varie banche mondiali, misurato attraverso lo spread applicato, a prestarsi denaro fra loro. Un proxy perfetto per testare il grado di fame di liquidità del sistema. Soprattutto, in dollari, stante lo status di benchmark valutario globale del biglietto verde. Quando quello spread cominciò a divaricarsi in maniera anomala, a qualcuno si drizzarono le antenne. E non fu un allarme esagerato. 



E oggi? Oggi siamo da capo. Ci sono segnali che non vengono colti, presi come siamo a rincorrere false notizie o tensioni finanziarie che solo un cieco potrebbe non aver visto arrivare, quasi ci si stupisse dell’arrivo dello tsunami dopo un terremoto. Prendete il caso saudita. Sembra il classico caso da narrativa che tanto piace a livello mediatico: la Casa reale dispotica, la negazione dei diritti umani, il contorno solo accennato della guerra in Yemen che sta mietendo vittime civili peggio di un’epidemia e ora, perfetta ciliegina sulla torta, l’oscura vicenda del giornalista Jamal Khashoggi, attirato con un trucco nel consolato saudita di Istanbul e lì, ucciso e fatto a pezzi. Addirittura, stando all’ultimo scoop della CNN, sciolto nell’acido. Roba da film su Netflix, ci sono tutti gli ingredienti per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. E manipolarne il pensiero. E qui, infatti, sorge la prima anomalia. 



Il caso è quasi interamente nato, cresciuto e gestito a livello mediatico negli Usa, dal New York Times alla CNN fino al Wall Street Journal. Un fuoco di fila globale, una copertura degna di una guerra. Perché si tratta di una guerra. Solo, combattuta con altre armi. Ieri il segretario di Stato, Mike Pompeo, era a Ryad per incontrare, fra gli altri, re Salman e soprattutto il principe ereditario, Mohammed bin Salman, il vero uomo forte del Regno. Non a caso, additato dalla stampa Usa come mandante dell’omicidio dello scomodo reporter. E, infatti, ecco che sempre da Oltreoceano viene spoilerata, proprio come capita per le serie tv, quando di vuole far aumentare l’attesa e curiosità, la mossa difensiva saudita: Khashoggi sarebbe morto nel corso di un interrogatorio finito male. Eppure, Stati Uniti e Gran Bretagna appaiono in prima fila nella denuncia di questo crimine, tanto che non solo hanno minacciato dure conseguenze in caso venissero riscontrate responsabilità della Casa Reale nell’accaduto, ma hanno già dato il via alle ritorsioni, di fatto boicottando quella che viene definita la “Davos del deserto”, il summit dei grandi della finanza previsto dal 23 a al 25 ottobre prossimi. 

Di più, fra domenica e ieri la Borsa di Ryad si è letteralmente schiantata, con cali medi del 4%. Insomma, stavolta fanno sul serio: i grandi alleati di Ryad in chiave anti-iraniana stavolta pensano che si sia passato il limite. Proprio sicuri? O, forse, il limite è stato sì oltrepassato, ma della pazienza nell’attesa dell’Ipo di Aramco, il gigante statale del petrolio di cui si millanta lo sbarco in Borsa da mesi, ma il cui reale approdo è sempre ritardato e rinviato? D’altronde, nel silenzio generale, questa vicenda ha già sortito un effetto, quasi collaterale. Per evitare noie, visto che l’accaduto può mettere in discussione la capacità dei servizi turchi di prevenire simili atrocità sul loro territorio, ecco che Ankara e Washington avrebbero trovato di colpo un accordo sul pastore anglicano da tempo detenuto agli arresti domiciliari proprio a Istanbul, poiché simpatizzante della causa curda. 

Eh già, dopo due anni di detenzione, fra carcere e domiciliari, padre Andrew Brunson tre giorni fa è tornato negli Usa: crisi terminata. E, molto probabilmente, anche speculazione sulla lira turca, un brutto grattacapo per Recep Erdogan. Ben peggiore del caso Khashoggi. Ma si sa, quando c’è di mezzo un membro della libera stampa rapito, picchiato, ucciso, fatto a pezzi e, addirittura, forse sciolto nell’acido, chi diavolo presta attenzione a queste cose. Come d’altronde, chi si pone domande sul fatto che, da almeno un mese, della Siria non si parli più. Ricordate, c’era il terrore a livello internazionale per una nuova crisi di profughi, una nuova emergenza umanitaria, visto che i russi erano pronti a lanciare l’attacco finale contro Idlib, la roccaforte dei jihadisti anti-Assad. Poi, un bilaterale fra lo stesso Erdogan e Putin, scongiurò l’ipotesi. Niente assedio finale, si tratta. Nel frattempo, l’Isis sta tornando ad armarsi e serrare le fila: stando alla denuncia di una Ong (quindi da prendere con le dovute cautele), 130 famiglie civili sarebbero state rapite nei giorni scorsi da miliziani dello Stato islamico nella provincia di Hajin, dove sono in corso combattimenti fra jihadisti e forze curdo-siriane sostenute dagli Usa. Insomma, la situazione invece che migliorare, sembra precipitare. 

Qualcuno cerca il casus belli per un intervento a sorpresa, magari reso necessario da qualche atrocità molto mediatica e che si poteva tranquillamente evitare, magari non permettendo all’Isis di riorganizzarsi in tutta tranquillità per l’ennesima volta? E vale per tutti, perché ormai in Siria è in atto un gioco sporco a tutti i livelli, russi in testa. Ora si comincia a parlare di petrolio in maniera palese, quindi non esistono più buoni o cattivi: solo alleati o nemici. In mezzo, gente che può essere sacrificata come carne da macello. Nel silenzio complice dei media, troppo impegnati con la fine degna dell’amico di Tony Montana in Scarface, quello fatto a pezzi nell’hotel di Miami dai narcos colombiani. La logica è quella: spaventare, indignare, indirizzare, priorizzare. Perché serve sviare l’attenzione da altro. La realtà in Siria, ad esempio. O quella economica reale Usa, visto che fra 20 giorni di vota per il midterm. O il fatto, ad esempio, che si stanno creando i presupposti per un mini-rally azionario che serva per ripulire del tutto i bilanci prima del botto reale: insomma, non solo vendere al parco buoi per non restare con il cerino in mano, ma vendere sui massimi. D’altronde, con la paura innescata da Wall Street la scorsa settimana, ora la favola del mercato che si è normalizzato e ha “purgato” un po’ di eccessi è più spendibile. Fateci caso, nelle prossime settimane, quando sarà finita la stagione delle trimestrali delle grandi corporations Usa, le quali ovviamente in questi giorni stanno vendendo al mercato degli unicorni spacciati come bilanci. 

Torniamo però all’Arabia e guardate questi grafici, i quali ci mostrano non solo come Ryad sia il miglior acquirente di armi di Washington (e Dio solo sa quanto gli americani tengano al loro amato warfare), ma anche che il Regno ha in mano parecchio debito pubblico Usa, comprato oltretutto mentre tutti gli altri grandi soggetti (Cina, Russia e Giappone) o si alleggerivano o scaricavano proprio del tutto le loro detenzioni di Treasuries. E ora, con Donald Trump che gioca al poliziotto cattivo con la Fed e i rendimenti obbligazionari che fanno mettere le mani nei capelli ai gestori di fondi di mezzo mondo, ci si può permettere che qualcuno anche solo minacci di scaricare qualche miliardo di carta a stelle e strisce? 

 

Difficile. A meno che non si voglia cercare lo scontro frontale, leggi una sorta di golpe – facilitato da elementi interni – per normalizzare il Regno e tramutarlo, sic et simpliceter, in un protettorato nell’area. Sia in chiave geopolitica nello scontro sciiti-sunniti con l’Iran, sia tenendo saldamente in mano la manopola dei rubinetti petroliferi mondiali, garantendosi il controllo sul primo produttore Opec (non a caso, l’Ipo di Aramco è il primo pensiero in testa al Dipartimento di Stato). Rischioso. Molto. Ma l’ipotesi di un principe ereditario che diventi proconsole Usa, detronizzando l’ormai isolato Re Salman, non appare così lunare. Tanto più che, dopo la luna di miele iniziale e il mezzo incendio fatto divampare nei Territori e nel mondo arabo per la decisione di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, i rapporti fra Usa e Israele paiono raffreddati. Quindi, occorre garantirsi un’altra opzione di alleanza ferrea nell’area. 

E sapete perché? Perché con mossa che ha lasciato di stucco anche mezzo gabinetto di governo e buona parte dell’intelligence e della Difesa di Tel Aviv, Israele ha firmato un contratto che dal 2021 vedrà la cinese Shanghai International Port Group (Sipg) operare nel porto strategico di Haifa, mentre un accordo separato ha garantito a Pechino anche la possibilità di costruire un porto nuovo di zecca nella città meridionale di Ashdod. Qual è il problema? Semplice, Haifa era ritenuta “casa” dalla Sesta Flotta della Marina Usa, la quale non ha preso proprio benissimo la mossa dello storico alleato israeliano. E questo, dopo che sempre la Cina aveva già fatto shopping di porti nel Pireo, in Grecia. Di fatto, monopolizzando le rotte nel Mediterraneo, tratto conclusivo della via strategica che parte dall’Oceano Indiano e passa dal Canale di Suez per arrivare in Europa. 

Insomma, dopo aver colonizzato l’Africa, Pechino sta prendendosi anche il controllo del Paese più strategico del Medio Oriente, nonché storico alleato degli Stati Uniti. Washington non poteva stare ferma. Nemmeno un minuto di più, occorreva muoversi e mettere la propria pedina sopra la tessera di Ryad, perché la partita a scacchi della geopolitica globale ora si sta facendo davvero finale. Però, se preferite credere alla telenovela degna di Barbara D’Urso del giornalista scomodo fatto a pezzi nel consolato saudita di Istanbul, perché con i suoi articoli disturbava il rampante principe, fate pure. Nel frattempo, magari, comprate anche qualche azione dei titoli tech, vedrete che le occasioni fioccheranno nelle prossime settimane. Così terrete bella tonica Wall Street, in attesa della quotazione di Aramco. E tutto tornerà, come sempre accade nella grande sciarada globale.