Siamo passati dal far parte della Magna Grecia a essere poveri come la Grecia, quella di oggi. In appena duemila anni. L’ultima, cruda quanto amara, rilevazione realizzata dalla Cgia di Mestre suona come un’ennesima, inappellabile sentenza che condanna il nostro Mezzogiorno alla retrocessione nella serie C d’Europa.
Spesso i rapporti dell’Ufficio Studi della Camera di commercio veneziana danno sostanza a quanto di paradossale esiste nell’economia italiana. Ma in questo caso di sorprendente non c’è nulla: dai dati incrociati emerge una realtà ormai nota a tutti e che tutti cercano di non guardare. L’Italia appare spaccata in due, priva di politiche – anche straordinarie – in grado di colmare il gap che separa le regioni forti del Nord da quella grande unica regione del Sud che conta circa 20 milioni di abitanti e che è stata in questi anni lasciata al suo destino, in mano a classi dirigenti incapaci di capire cosa stava succedendo. Anzi, esse si sono attardate a raccontarsi la storia che – ora che erano arrivati loro a comandare – le cose stavano finalmente cambiando e che i dati già dimostravano che l’inversione di tendenza era iniziata. Tutte balle.
La china su cui è scivolato il Sud dal 2008 a oggi, i dieci anni di questa lunga crisi, ha portato sempre più velocemente il Mezzogiorno fuori dal circuito economico e produttivo del resto del Paese. Scarsi investimenti pubblici e ancor più limitati investimenti privati hanno reso il Sud un territorio povero, poverissimo, esattamente come la Grecia del default del 2010.
Il Pil pro capite di un italiano che vive al Sud è oggi di 18.230 euro, appena 2.000 euro in più di quello di un cittadino greco, ben 15.618 euro in meno di un cittadino del Nord Italia, che di fatto guadagna quasi il doppio. Rispetto ad alcuni parametri, siamo messi addirittura peggio della Grecia: il tasso di disoccupazione giovanile (noi 51,4%, loro 43,6%), le esportazioni sul Pil (noi 11,3%, loro 14,6%), il rischio di povertà (noi 46,9%, loro 35,3%). I dati del Nord neanche a guardarli, basti sapere che in molti casi sono migliori di quanto non succeda in Germania. La conseguenza più seria è sotto gli occhi di tutti, ovvero la ripresa dell’emigrazione dal Sud delle energie migliori, oltre 150mila all’anno. Vanno, come sempre è accaduto, a cercare fortuna dove si vive meglio.
A questo quadro aggiungiamo che la qualità dei servizi nel Mezzogiorno è scesa a livelli indicibili: scuola, sanità, trasporti, sono quasi ovunque al collasso. Interi territori, come Scampia o Castel Volturno, sono abbandonati a se stessi, discariche a cielo aperto dominio dell’illegalità. Molti turisti che arrivano a Napoli o sulle coste della Puglia, che amano la Sicilia o progettano di passare per Matera, capitale della Cultura 2019, neanche sanno o “vedono” questa realtà. Esattamente come quei turisti che passano le loro vacanze nelle straordinarie isole greche, e che anzi amano il modo in cui la gente locale si ingegna per campare degnamente e offrire loro un servizio adeguato. E che vuoi che sia se non ci fanno lo scontrino fiscale! Appunto, che vuoi che sia … Nel Mezzogiorno l’esercito di persone che lavora in nero conta ormai un milione e 300mila unità. Ed è questo il vero grande ammortizzatore sociale che ha salvato il Sud dalla rivolta e le Prefetture dall’essere messe a ferro e fuoco. Cose che accadono con una certa frequenza da queste parti, come ci spiega Enzo Cicconte nel suo bel libro sul brigantaggio La grande mattanza (Edizioni Laterza).
E arriviamo, infine, al punto, che potrebbe rendere il tutto ancora più grave e trasformare l’attuale distanza siderale in una “rottura” definitiva e insanabile. Dopo i referendum regionali di Veneto e Lombardia, tesi a chiedere maggiore autonomia (richiesta a cui si è accodata anche la rossa Emilia-Romagna), è in corso una trattativa di cui nessuno parla tra lo Stato italiano e le suddette tre regioni per trasferire loro numerosi funzioni (in materia di sanità, scuola, formazione, politiche del lavoro, agricoltura, e molto altro) e conseguente spostamento di risorse di pertinenza. Il cuore della trattativa è la richiesta pervenuta da parte di queste regioni di mettere le mani su quello che si chiama “avanzo primario”. L’accordo, raggiunto in gran segreto, si è trasformato in una sorta di patto tra Stati, come se Stato italiano, Regione Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna fossero tutti soggetti equipollenti. Accordo che – come le intese tra Stati richiedono – potrà essere solo ratificato dal Parlamento italiano, ma non discusso. Inutile aggiungere che dopo il 4 marzo c’è già un’ampia maggioranza pronta ad approvarlo.
Dunque, nel disinteresse generale, il Mezzogiorno definitivamente muore. Quella che dovrebbe essere l’opposizione tace, anzi al Nord ha sostenuto i temi del referendum per l’avanzo primario e le ragioni del Sì, come dimostra la posizione emiliana o quella dello stesso candidato Giorgio Gori alle recenti elezioni lombarde. Sono spariti – e forse spariranno anche dai libri di storia della scuola di base del Nord – le ragioni politiche, ideali ed economiche che animarono il nostro Risorgimento.
Serve a questo punto uno scatto del mondo della cultura e dell’economia per fermare questo scempio. Probabilmente non gioveranno alla battaglia le attuali posizioni di molti governanti del Sud, ma qui è in gioco la vita di 20 milioni di italiani e, di riflesso, l’unità politica del Paese. Al Sud qualche barlume di resistenza si sta accendendo. Possibile che al Nord tutto questo accada nell’indifferenza generale?