Non è certo difficile trovare spiegazioni al calo delle Borse di venerdì: i dati cinesi confermano la frenata della seconda economia del pianeta. Alla battuta d’arresto contribuisce senz’altro la guerra dei dazi scatenata dagli Usa, anche se l’effetto dei provvedimenti si sentirà solo più avanti, così ipotecando la nuova frenata per il 2019. Nel frattempo, Xi Jinping sfrutta l’emergenza per mettere, con prudenza, ordine nella finanza di casa, ormai in una situazione esplosiva, e rivedere gli obiettivi industriali, senza però compromettere la rincorsa alla leadership globale, ormai in atto. 



La stretta cinese comporta una diminuzione dei consumi delle materie prime, come testimonia il calo repentino del greggio. La speculazione, che contava su un brusco aumento dei prezzi alla vigilia dell’embargo Usa all’Iran, si è trovata spiazzata. I piani di Washington, poi, sono stati complicati dall’assassinio di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita del Washington Post ucciso in maniera barbara entro il consolato di Istanbul, un gesto criminale di inaudita arroganza che ha messo in grave difficoltà Donald Trump, che di sicuro vanta ottimi legami d’affari con i sauditi, ma non può liquidare il delitto come un “incidente”. Una punizione dei sauditi, però, comporta non pochi problemi per i Big che contano sui finanziamenti di Riyad, dalla giapponese Softbank a Tesla.



In questo contesto tragico, non manca una nota di colore, cioè la “retromarcia” di Roma dalla manovra “bella ed equilibrata” secondo il premier Giuseppe Conte che ha indetto un Consiglio dei ministri bis per correggere quel che i Cinque Stelle hanno approvato e subito denunciato rifugiandosi dietro la “solita” la manina. La sceneggiata occupa le prime pagine dei giornali distogliendo l’attenzione da due dati: 1) l’accelerazione del giudizio Ue sulla manovra in modo da anticipare il voto delle agenzie di rating; 2) la mancata solidarietà da parte di tutti i Paesi dell’Unione, d’accordo con la linea Salvini sulla sicurezza ma gelidi verso l’atteggiamento del Governo in materia economica.



Ci sono ottime ragioni per spiegare la debolezza dei mercati che rischia di rimettere in discussione la buona salute dell’economia mondiale drogata dall’iniezione di capitali della riforma fiscale Usa (975 miliardi di dollari finiti in buona parte in Borsa) che ha provocato un aumento del deficit federale di oltre mille miliardi. Ma ci sono motivi ancora più forti per giustificare il rifiuto compatto dei mercati alle proposte italiane che pure dipendono da cifre ben più modeste: uno sbilancio di 22 miliardi di euro, tutto sommato sostenibile. Ma, in contrasto con la baldanza e le sicurezze di Washington, dai palazzi del Governo italiano emana più che altro una sensazione di confusione e di incertezza a danno della affidabilità del Bel Paese sia presso gli investitori esteri che quelli domestici, forse ancor più critici. 

Come ha sottolineato Antonio Polito la situazione italiana riflette sia la voglia di “sicurezza” sostenuta dalla Lega, sia il “rancore” emerso dopo la lunga crisi, che è un po’ la cifra comunque alle pulsioni dei Cinque Stelle. Ma il primo sentimento può esprimersi in scelte politiche, il secondo stenta a trovare una strategia coerenza che vada al di là del ribellismo e delle dietrologie. Questa doppia inclinazione genera una situazione insostenibile. Il motivo? La gente non si fida. 

Spiega un autorevole gestore di grandi capitali: “I miei clienti sono disposti ad accettare una patrimoniale piuttosto che altre iniziative per riequilibrare i redditi andando incontro a chi non ce la fa. Ma non possono tollerare un salto nel buio, senza alcuna garanzia, ma con la sola preoccupazione di restare in sella finché si può”. Di qui la sensazione che l’equilibrio instabile del Bel Paese sia destinato a non durare. Certo, il collante del potere può tenere ancora per un po’. Ma fino a quando? 

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