Ma lo spread vola: a) per il contenuto della manovra; b) per la lettera della Commissione Ue sulla manovra; c) per il rischio di crisi di governo; d) per l’escalation della lunga campagna elettorale europea? Probabilmente per un mix di tutte queste ragioni, ma proprio per questo può non essere tempo perso ragionarci sopra. Perché a sette anni dal 2011 può tornare irresistibile sia la tentazione di evocare “complotti dell’Europa e dei mercati”, sia quella di gridare “Fate presto” a cacciare dall’Italia la democrazia nazionale per dar spazio alla tecnocrazia sovranazionale. Lo scrisse a caratteri cubitali il quotidiano di Confindustria per forzare l’insediamento del Governo  Monti. Quello stesso mondo – non più tardi di giovedì, all’assemblea di Assolombarda – ha fischiato il ministro dell’Economia Tria.  



Martedì, in ogni caso, il giorno dopo la presentazione del decreto fiscale e del disegno di legge di stabilità 2019, lo spread era sceso sotto la quota psicologica di 300 e la Borsa di Milano aveva recuperato. La situazione tecnica era abbastanza leggibile: gli smobilizzi di Btp dai grandi portafogli istituzionali internazionali si potevano considerare conclusi dopo settimane di confronto sul cantiere della manovra. Lo stesso avvicinamento al doppio test-rating (26 ottobre per Standard & Poor’s, il 30 per Moody’s) si profilava ordinato: Goldman Sachs si era spinta a prevedere addirittura una reazione neutrale attorno a quota 300 anche nel caso di un downgrade di un notch, senza l’aggravante dell’outlook negativo.



Lo spread è invece ripartito bruscamente – raggiungendo nuovi record storici – sulla reazione della Commissione Ue. Sulla durezza delle dichiarazioni del Presidente Juncker, già alla vigilia della lettera sulla “deviazione eccezionale” dei parametri italiani. Sullo sprezzante ultimatum “ad horas” inviato al Governo italiano durante un vertice di capi di Stato e di governo a Bruxelles, presente il premier Conte. Lo spread è riandato fuori controllo sull’ostentato viaggio a Roma del commissario (francese) Moscovici: nella cui agenda è rientrata una visita al Quirinale  – fuori da ogni protocollo istituzionale – e un incontro con il candidato leader del Pd Nicola Zingaretti (estremamente discutibile per un tecnocrate Ue fuori dal suo Paese d’origine e comunque faro acceso sul fatto che il commissario che attacca l’Italia sui conti è l’esponente di Ps francese  quasi azzerato dopo gli ultimi voti nazionali e comunque avversario della maggioranza di Governo in Italia sul fronte del prossimo voto europeo). 



Non da ultimo, ieri mattina, il quirinalista del Corriere della Sera ha titolato a tutta pagina: “Mattarella chiede alla Ue di mediare”. Nessuno potrà mai discutere l’appello alla “responsabilità”  da parte del Presidente della Repubblica, ultima istanza costituzionale di ogni valutazione su ciò che è bene per il Paese. Però è un fatto che l’Europa cui – almeno secondo il Corriere – Mattarella avrebbe chiesto di “mediare” con l’Italia ha i volti e i modi di Juncker, Moscovici, del commissario tedesco Oettinger: politici uscenti e da tempo delegittimati sia nei loro Paesi che in un’Europa ripetutamente bocciata in molte sedi. 

E c’è dell’altro, a proposito dei rapporti sempre delicati fra politica e finanza: a rigore,  “preannunciare” ai mercati decisioni non ancora prese da organi istituzionali (sia il board di Tesla o la Commissione Ue) con riflessi significativi su prezzi di titoli, si chiama “market abuse” o “insider trading” ed è un reato penale ovunque. La Sec ha costretto Elon Musk a lasciare il vertice di Tesla per un tweet fuori dalle righe. La Procura di Trani è invece finita suo malgrado nel guinness delle bizzarrie globali per l’inchiesta sul ruolo presunto delle agenzie di rating sul debito italiano nel 2011. Oggi può apparire invece bizzarro che nessun investitore in titoli italiani (o anche lo stesso emittente Tesoro) presenti un esposto in qualche sede giudiziaria contro le dichiarazioni di Juncker durante gli happy hour serali, i tour politici di Moscovici pagati dall’Ue, i tweet di Oettinger.

Non c’è dubbio, peraltro, che la sceneggiata televisiva del vicepremier Di Maio sulla manovra “manipolata” sul condono abbia peggiorato un quadro già delicato: così com’era stato per l’affaccio al balcone di palazzo Chigi dopo l’approvazione delle linee-guida della manovra. Al di là delle questioni di stile (ma anche gli aspetti “intangibili” influenzano i mercati) è chiaro che per la prima volta il Governo giallo-verde è parso sull’orlo di una crisi. E lo stesso Matteo Salvini – finora capace di interpretare il ruolo del vicepremier affidabile sul piano della capacità di governo – è parso in difficoltà. Si è fatto cogliere in rapida trasferta a Mosca – mentre nella sua Milano gli industriali lombardi lo attaccavano su una manovra  anche sua – ed è parso incerto sull’opportunità di una “revisione” della manovra in Consiglio dei ministri. Un “extra time” probabilmente sollecitato dal Quirinale non solo per dirimere il dossier “pace fiscale”, ma anche per una levigatura più ampia e incisiva, tale da poter essere inviata a Bruxelles entro il termine di lunedì.

La motivazione iniziale addotta da Salvini per respingere di una riverifica della manovra – “Ho altri impegni” – è stata giudicata generica, pretestuosa, dettata da puro tatticismo. In realtà è una motivazione effettiva e anzi molto significativa per l’analisi della situazione italiana. Salvini fino a ieri sera tardo è stato impegnato a tempo ultra-pieno nella fase finale della campagna elettorale in Trentino e Alto Adige: dove si vota domani per il rinnovo delle autonomie provinciali. Un appuntamento non troppo distante né geograficamente, né politicamente dal voto in  Baviera di cinque giorni fa: evento che per tre giorni si è meritato le headelines sui media internazionali. I sondaggi parlano chiaro: la Lega può espugnare la Provincia di De Gasperi, storica roccaforte del centro-sinistra, modello e approdo sognato di tante spinte autonomiste dal vicino Lombardo-Veneto. E la stessa Lega può inopinatamente sostituire il Pd nella nuova maggioranza di governo a Bolzano, quel Pd del “ridotto alpino” utile il 4 marzo a far rieleggere l’ex ministro Maria Elena Boschi. Ma l’Alto Adige è anche la “terra di mezzo” fra l’Italia leghista e l’Austria “diversamente sovranista” di Sebastian Kurz: che preme con la proposta di doppio passaporto per i “diversamente italiani” del Sud Tirolo; e che forse anche per questo appare in questi giorni zelante come l’Olanda o la Finlandia sui conti italiani. 

È  comunque chiaro che a Trento e Bolzano – non diversamente che a Monaco di Baviera domenica scorsa – si gioca un nuovo round di primo livello nella lunga e già “sporca” campagna elettorale per il voto del 26 maggio 2019. Né può essere dimenticato che proprio negli ultimi giorni Salvini ha lanciato il ballon d’essai di una discesa in campo alle europee come spitzenkandidat del fronte sovranista anti-europeo. Lo ha fatto da Mosca, dove continua a regnare quel Vladimir Putin la cui amicizia costò carissima a Berlusconi nel 2011, ma non poco anche all’Italia dell’ultimo governo di centrodestra. Tutto fa spread. 

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