Il Consiglio dei ministri ha riletto ieri il decreto sul condono e lo ha riapprovato con alcune modifiche, impecettando, per così dire, un provvedimento che, manine o non manine, era comunque destinato a dividere il popolo leghista dal popolo grillino. Matteo Salvini non dice il vero quando sostiene che a lui del condono non importa nulla, perché rappresenta la merce di scambio fiscale, vista la rinuncia alla flat tax e alla riduzione delle imposte, cioè alla principale proposta con la quale si è presentato agli elettori (non dimentichiamo che la pressione fiscale non si ridurrà nel 2019 e questa è una delle cifre chiave scritte nella manovra di politica economica). Dal canto suo Luigi Di Maio non dice il vero quando mostra di essere caduto dal pero, perché la questione non riguarda solo un articolo o un comma, ma l’intero impianto che certo è lontano mille miglia da quel che il M5S aveva promesso ai propri “cittadini”.
Il Consiglio dei ministri si è concluso con un sostanziale pareggio. È scomparso anche lo scudo per il rientro dei capitali dall’estero non solo il condono penale per il riciclaggio. Resta la non punibilità per i reati tributari altrimenti nessuno si autodenuncerebbe al fisco rischiando una condanna. Viene aggiunta una dichiarazione integrativa per far emergere il nero (si tratta del 30% in più di quanto dichiarato entro 100 mila euro l’anno). Il M5S può celebrare la sua festa al Circo Massimo intonando cori di giubilo, ma non cambia il fatto che un condono non era nel programma elettorale grillino e nemmeno, non in questa veste, nel contratto di governo. Matteo Salvini ha fatto un passo indietro e due avanti: le pensioni e il via libera sulla legittima difesa. Soprattutto non cambia la manovra, non mutano i dati di fondo, a cominciare dal rapporto tra deficit pubblico e prodotto lordo, quel 2,4% che ha irritato l’Unione Europea e ha messo in allarme Moody’s.
Vedremo cosa accadrà lunedì in borsa, dopo il downgrade che porta il debito italiano a Baa3, appena una casella sopra il livello “spazzatura”. Di Maio sorride attaccandosi all’outlook stabile. Per certi versi non ha torto, perché la discesa di un gradino era stata già scontata sia dai mercati che dalla politica, in Italia e fuori; ma attenzione: quella stabilità resta precaria, intanto perché manca il giudizio di Strandard & Poor’s e poi perché non sono prevedibili le reazioni sulle piazze internazionali dove gli operatori stanno rivedendo le loro scelte di portafoglio in previsione di uno sgonfiamento della bolla finanziaria e di un rallentamento economico nei prossimi mesi.
In questo scenario che poco ha a che fare con manovre speculative in senso proprio e prescinde anche dalle valutazioni di Bruxelles, ingaggiare un braccio di ferro per ragioni di facciata o per un puntiglio demagogico, è un gioco molto pericoloso. Ieri sia Salvini, sia Di Maio hanno negato l’intenzione di uscire dall’euro e di imporre una patrimoniale (come suggeriva la nota di Moody’s riferendosi al gran risparmio degli italiani al quale attingere), ma c’è sempre in agguato il cigno nero come non smette di rammentare il professor Savona.
La trattativa con l’Ue non è finita e Pierre Moscovici nei suoi incontri romani, non solo con il ministro Tria, ma con il presidente Mattarella, ha potuto constatare da vicino la reale situazione ed è apparso disposto a offrire un ramoscello d’ulivo se il Governo correggerà la manovra. Che cosa preoccupa l’Unione Europea? Sono partite altre lettere di richiamo, alla Francia, al Belgio, al Portogallo, alla Spagna, ma tutti questi paesi mostrano un piccolo scostamento dal sentiero di riduzione del disavanzo, tra lo 0,25% della Spagna e lo 0,4% degli altri, mentre per l’Italia, che tra tutti ha il debito più elevato, siamo a 1,4% e tutto per effetto di spesa pubblica corrente, agli investimenti, infatti, vanno pochi spiccioli
Martedì il verdetto della Commissione che, senza modifiche sostanziali, sarà una bocciatura. Nella risposta del Governo verrà confermato il deficit al 2,4%, ma si sottolinea che si tratta di una misura temporanea. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte annuncia riforme strutturali nelle prossime settimane, tali da far crescere il Pil tra lo 0,5% e l’1,2%, senza specificare come e in quanto tempo. Alcune analisi di centri studi bancari sottolineano che il gettito del condono sarà inferiore al previsto e il rallentamento della congiuntura internazionale renderà impossibile raggiungere un obiettivo di crescita pari all’1,5% come sostiene il Governo.
Se così fosse, il bilancio pubblico verrebbe messo in pericolo dal lato delle entrate non solo delle spese per finanziare le pensioni a quota 100 e il cosiddetto reddito di cittadinanza. C’è già chi parla di uno sforamento del deficit oltre il 3%, addirittura fino 3,5% se si realizza lo scenario peggiore. Sono questi timori a mettere in allarme l’Ue, la Bce e i mercati. Dunque, una riduzione del deficit, portandolo vicino al 2% e una revisione dei principali provvedimenti in modo da renderli meno erratici e contraddittori, sarebbero passi avanti all’insegna del realismo e della saggezza, nell’interesse del Paese. Ma un tuffo nella realtà farebbe bene anche ai partiti di governo. Nella situazione attuale e con quella manovra di politica economica, sia la Lega che il M5S sono davvero sicuri di potersi presentare agli appuntamenti elettorali di primavera mostrando ai loro elettori una Italia in crescita, una disoccupazione in calo, una povertà ridotta, un fardello fiscale meno oneroso?
Oggi come oggi la risposta non può che essere negativa. Del doman, come sappiamo, non v’è certezza, meno che mai in questa Italia giallo-verde.