Ve lo giuro, sono esterefatto! Sì, pensavo di averle scrutate tutte, di aver fatto i conti in tasca ai tutti quei sovrapproduttori seriali che stanno al mondo. Questa mi era sfuggita. Burberry, lo scorso anno, ha bruciato capi e accessori firmati per un valore di oltre 28 milioni di sterline. La rivelazione shock si trova nel bilancio della casa di moda inglese, famosa per i suoi trench e oggi guidata dall’italiano Marco Gobbetti.
Come scrive il Times, a conti fatti, la cifra si potrebbe tradurre in 20mila dei suoi iconici trench andati in fumo e negli ultimi cinque anni sarebbero state distrutte merci per 100 milioni di euro. La distruzione degli stock in eccesso è una pratica iscritta a bilancio e molto diffusa nell’industria del lusso che decide così di mandare all’inceneritore una montagna di pezzi non venduti piuttosto che farli finire negli outlet o nel “mercato grigio”. Tutto per salvaguardare l’esclusività del marchio e impedire contraffazioni.
Questa volta non basta avere capacità produttiva inutilizzata; no, questa volta viene addirittura bruciata. Ci risiamo, ancora una volta, l’economia dei consumi mostra impavida la sua faccia; quella tosta: l’eccesso di capacità produttiva! Dunque vediamo: ci sono più trench in magazzino di quelli che hanno previsto di poter vendere. Beh, tu, gestore dei fattori produttivi, avresti dovuto far meglio; chi ha lavorato a farli, ha fatto troppo; chi ha investito nell’azienda ha impiegato male il capitale investito.
Bene, ficchiamo il naso dentro il bilancio della premiata ditta e sbirciamo tra i mille dati del conto economico: “Nell’esercizio, terminato il 31 marzo 2018, i ricavi hanno totalizzato 2,73 miliardi di sterline. Nello stesso anno il risparmio dei costi ha raggiunto i 64 milioni di sterline che diventeranno 120 milioni nel 2019. Il dividendo per gli azionisti invece è salito del 6% a 41,3 pence per azione”. Stesso giorno, stessa ora della resa dei conti, tranquillizzati da questi numeri, gli investitori acquistato azioni Burberry alla Borsa di Londra: +4,2%. Dai, bella no?
Dunque sterline per 2.730.000.000, ricavate dalla spesa fatta dai consumatori, vengono intascate dall’impresa e, come s’usa, trasferite per remunerare quei fattori della produzione che… per l’amordiddio, lasciamo stare! Beh, che il taglio dei costi riduca pure il salario del lavoro svolto per fare quei troppi trench ci può stare e quell’aumento di 41,3 pence del dividendo per azione a quelli del capitale che, in quei trench, ci hanno investito? Un bel trasferimento non c’è che dire, che ridurrà ancor più il potere d’acquisto di quelli che i trench, pur di non farli bruciare, magari… potrebbero acquistarli!
C’è del marcio in Danimarca, pardon in Inghilterra o nell’inefficienza di questo meccanismo di trasferimento che, non potendo remunerare direttamente l’esercizio di consumazione, danneggia la produttività totale dei fattori produttivi? Dunque, se gli eticisti additano inequivocabilmente l’intrallazzo morale, gli altri chi additeranno? Il dito, la Luna o quel dannato paradigma che attribuisce, fuori tempo massimo, ancora all’impresa e non alla spesa la generazione della ricchezza?
Già, a meno che la lungimiranza di quella dirigenza, che non si gratta la panza, abbia già messo in conto altri falò, con i quali bruciare altra potenziale ricchezza. Giust’appunto potenziale, poiché quella reale viene generata dalla spesa che, solo con l’acquisto, trasforma quella merce in denaro.