Il 15 ottobre, in un sala di palazzo Chigi, il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio si sentiva “un piccolo De Gaulle”. Non solo per ragioni di statura. Ma in quanto, su suggerimento di un collega fresco di studi sull’integrazione europea, aveva adottato la tattica della “sedia vuota”, quella, per l’appunto, del Général dal 30 giugno 1965 al 29 gennaio 1966, quando non facendo partecipare i suoi Ministri (e ovviamente non partecipando lui stesso) alle riunione di quella che allora si chiamava Comunità economica europea, ottenne ciò che il Governo francese voleva in materia di Politica agricola comune, di metodo di votazione negli organi deliberanti europei e di funzioni del Parlamento europeo.



Il 15 ottobre, nonostante molti Ministri fossero arrivati (il Ministro Savona trafelato da un incontro di studio in cui si discuteva la sua proposta per una nuova politeia europea), la “sedia vuota” di Di Maio ha comportato un ritardo di due ore all’inizio di un Consiglio dei ministri che aveva due piatti forti all’ordine del giorno: il Decreto Tributario (incentrato sulla pace fiscale) e il Documento Programmatico di Bilancio che si sarebbe dovuto inviare la sera stessa a Bruxelles. La “sedia” di Di Maio è rimasta “vuota” sino a quando il vicepresidente del Consiglio non ha ottenuto garanzie da lui ritenute adeguate in materia di fisco e di fondi per il reddito di cittadinanza. Quando ha deciso di entrare nella sala del Consiglio dei ministri ha dichiarato di aver trovato un miliardo di euro dalle cosiddette pensioni d’oro, per contribuire a finanziare i programmi per i quali “il popolo” ha votato il Governo giallo-verde (a suo avviso, principalmente il reddito di cittadinanza).



Nei giorni successivi approvato un Dpb molto generico (e non un Disegno di Legge di Bilancio) e raggiunto un accordo sui principi del Decreto Tributario, le polemiche e i contrasti tra i due principali partiti che costituiscono il Governo del cambiamento sono continuate segnatamente sulla pace fiscale. È chiaro a tutti che M5S e Lega, legati da un “contratto” che può dar adito a numerose interpretazioni ma non da un’alleanza politica, sono da tempo in campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo del prossimo maggio. Allora saranno, se non “l’uno contro l’altro armato”, in seria competizione per rappresentare le istanze di “blocchi sociali” molto differenti. Il livello di fiducia tra i due movimenti è bassissimo. Gli sgambetti sono all’ordine del giorno.



Mentre infuriavano le tensioni sulla pace fiscale, e non si sapeva cosa avrebbe contenuto il Disegno di Legge di Bilancio, in materia di reddito di cittadinanza (le idee all’interno dello stesso M5S sono così vaghe e contraddittorie che probabilmente si creerà un fondo e si stanzierà una somma rimandando i contenuti a decreti delegati), nessuno ha badato al “miliardo del Signor Bonaventura”, ossia allo stanziamento che il vicepresidente del Consiglio Di Maio dice di avere trovato con le cosiddette pensioni d’oro. Pare si tratti di una trovata per alienare parte dell’elettorato del suo co-contraente del contratto di governo, ma concorrente alle sempre più vicine elezioni europee. Uno sgambetto bello e buono, come spesso avviene da certe parti. Ma approssimativo. E tale da poter diventare un boomerang.

Andiamo con ordine. Le pensioni d’oro sono un vessillo per il M5S, mentre il “superamento” della Legge Fornero è una bandiera per la Lega. Sul “superamento” c’è un accordo (secondo l’Inps costosissimo). Sulle pensioni d’oro, la proposta di legge presentata insieme dai Capigruppo alla Camera di Lega e M5S (Molinari e D’Uva) contiene forti rischi di incostituzionalità (pare lo abbiano rilevato gli stessi giuristi di palazzo Chigi). Inoltre, le audizioni in Parlamento ne hanno sottolineato la macchinosità e il fatto che colpirebbe solo alcune categorie, ormai molto anziane, e frutterebbe pochissimo in termini di risparmi di spesa.

Il “miliardo” di Di Maio allora verrebbe: a) da un congelamento per tre anni delle perequazioni all’aumento del costo della vita o b) da un “contributo di solidarietà” temporaneo analogo a quello messo in atto dal Governo Monti oppure ancora c) da una combinazione tra a) e b). In ciascuna delle tre ipotesi, si pescherebbe nelle tasche dell’elettorato leghista tanto più che giungere al conclamato “miliardo”, pur scaglionato su tre anni, l’asticella dell’importo dell’assegno pensionistico sopra cui intervenire dovrebbe essere posta a 2.500 euro al mese.

Ciò comporta un problema formale, ancora non sollevato dalla Lega, ma potrebbe essere uno dei punti che emergeranno nel dibattito parlamentare: il contratto di governo considera “d’oro” le pensioni che superano i 5.000 euro netti. Può una delle parti contraenti cambiare unilateralmente le carte in tavola? Sotto il profilo sostanziale, sentenze della Corte Costituzionale sottolineano che misure come a) e b) (o una combinazione delle due) possono essere prese unicamente in gravi condizioni di finanza pubblica. Può il Governo del cambiamento proclamare che l’Italia è sull’orlo del dissesto e nel contempo spendere e spandere in condoni e assistenza?