Scrive Roberto Perotti su Repubblica — che non è precisamente un giornale filogovernativo, finalmente, dopo esserlo stato appassionatamente negli anni di tafazziano renzismo dettato dal demol(ed)itore Carlo De Benedetti: “La Commissione europea ha formulato accuse durissime al Governo italiano, sbagliando nella forma e in parte nella sostanza”. E se lo dice Perotti su Repubblica, c’è da credergli. Ma come lo sa Perotti — che la Commissione europea sta sbagliando — non lo sapranno Salvini, probabilmente, e sicuramente non lo sa Di Maio (facciamo molto prima a elencare le cose che sa), ma lo sanno bene Paolo Savona, Enzio Moavero Milanesi e lo stesso Giovanni Tria, ovvero rispettivamente i ministri per gli Affari europei, degli Esteri e dell’Economia. Non proprio pizza e fichi, insomma.
Perché sta sbagliando? Perché, come spiega Perotti, la Commissione europea semplicemente non può aprire una procedura d’infrazione per eccesso di disavanzo contro l’Italia, in quanto la famosa deviazione dalla raccomandazione di Bruxelles non è “senza precedenti”, contrariamente a quanto ha detto Moscovici, ma è più o meno in linea, o al massimo di pochissimo superiore, a quella fatta da Renzi nel 2016; e quindi, almeno fin quando non dovesse risultare dall’andamento dell’economia che il disavanzo viaggia su un aumento tendenziale di oltre il 3%, non ci sono elementi di prassi giuridica per aprire la procedura; e tra oggi e il termine entro il quale potrebbero profilarsi questi elementi, Juncker e compagni hanno davanti un piccolo ostacolo chiamato “elezioni europee”.
Alle europee questa Commissione arriverà stremata, delegittimata, quasi ridicolizzata dalla marea di dissenso e turbolenza scatenatasi intorno al governo d’Europa. Mentre i leghisti in Italia, in parte anche i grillini, e i loro partiti “amici” negli altri Paesi europei non potranno che rafforzarsi.
È qui la ragione di tanta indifferenza del Governo italiano alle rimostranze europee. Non dobbiamo commettere l’ingenuità che Tria abbia firmato la sua lettera alla leggera. Sapeva quel che faceva. Già: eppure è proprio qui che casca l’asino. Anzi, ne cascano due. Un asino politico, rappresentato dall’atteggiamento degli altri sovranismi europei; e un altro asino economico, che si chiama spread.
Proviamo a spiegarci. La linea anti-europea del Governo italiano — dopo aver ribadito mille volte che non punta a portare l’Italia fuori dall’euro — ha mille buone ragioni al suo attivo, ma ha anche una debolezza strutturale: pretende di potersi affermare facendo affidamento sul movimento sovranista che attraversa come una specie di uragano un po’ tutta l’Europa, a vario titolo e in vari modi è stufa dell’insensata austerity imposta dai tedeschi, stufa delle burocrazie comunitarie, insoddisfatta della mancanza di calore, ideali e prospettive che questo modo di essere Unione Europea rappresenta.
Peccato però che i sovranisti — coloro che a vario titolo vogliono recuperare a vantaggio degli Stati nazionali aderenti all’Unione tutta o parte della sovranità ceduta a Bruxelles — sono alleati impossibili, per noi: sì, sono d’accordo con Salvini e compagni nel dire alla Commissione europea “Giù le mani dalle questioni interne agli Stati”, ma non sono più d’accordo quando dicono che, fino a riforme compiute, gli Stati che hanno aderito ai Trattati devono rispettarli alla lettera. Non a caso, ieri, il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, che certamente non si mostra particolarmente amico di Bruxelles, ha invocato nuovamente la linea dura contro l’Italia: “L’Austria non intende sostenere i debiti degli altri Paesi, mentre questi Stati scientemente contribuiscono all’incertezza dei mercati finanziari. Ora l’Ue deve dimostrare di aver imparato dalla crisi della Grecia”. Chiaro? Sovranista mangia sovranista: e noi in questo momento non facciamo paura a nessuno, siamo come erbivori nel recinto dei carnivori.
E veniamo allo spread. Ieri avrebbe potuto andar peggio, dopo il downgrading inflittoci da Moody’s, invece ha aperto a quota 282 e ha poi veleggiato di poco sopra i 300 punti base. Ma il punto è che il Tesoro dello Stato — anche se il differenziale di rendimento tra Btp italiani e Bund tedeschi restasse al livello attuale — fin d’ora sa che dovrà “servire” un mercato di investitori che non si accontentano più dei rendimenti di sei mesi fa, ma ne pretendono di più alti per comprare la nostra “carta”, come dicono in gergo i broker finanziari. Dunque lo spread non è un dispettuccio, una smorfia, una pernacchia al nostro indirizzo: è un costo.
Non a caso ieri proprio il ministro Savona — che sicuramente, come economista, è quello che al governo ci capisce di più — ha ipotizzato, commentando la tenuta relativamente buona dello spread, che “secondo me sta intervenendo la Bce”, perché — ha aggiunto — “non ho mai visto la speculazione accontentarsi di così poco”. E se lo dice Savona, che avrebbe avuto in teoria l’interesse politico di sostenere che lo spread saliva poco grazie al fatto che la nostra manovra iniziava a piacere ai mercati, gli si può credere.
E dunque? Dunque il governo Conte-Salvini-Di Maio sta facendo una partita di poker che somiglia a una roulette russa. Perché vinca la sua battaglia è necessario che davvero l’Unione Europea non intimidisca eccessivamente i nostri politici, che dunque il Parlamento approvi una manovra bocciata da Bruxelles, che le cose procedano nel solco indicato dal Governo e che — miracolo! — l’economia italiana ricominci a crescere. Contemporaneamente, arrivando al voto europeo, è necessario che i sovranisti vincano. Una doppia scommessa, senza vie d’uscita né compromessi possibili. Cosa dire? Auguri a tutti noi.