La bocciatura dell’Unione europea sarà anche stata attesa dal Governo ma non ha fermato la “volatilità” sui titoli di Stato italiani. Il “demone” dello spread, già uscito dalla bottiglia, oggi come nel 2012 può ritornarci dentro solo con l’aiuto della Bce, che a sua volta si attiva solo con un accordo politico tra l’Italia, le istituzioni europee e i loro azionisti di maggioranza. Oggi come nel 2012 gli strumenti negoziali dell’Italia sono l’austerity e, soprattutto, la cessione di sovranità che si è esemplificata con l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione e poi con la progressiva accettazione delle regole europee sulle banche in cui un credito a una pmi è sempre peggio di un derivato. Rimane incredibile come sfugga proprio in Italia il cuore della dialettica con l’Europa. Noi italiani avremmo tutti gli strumenti e la storia per comprenderlo meglio di chiunque altro.



L’Italia per molti decenni ha funzionato, prosperando, con un patto non scritto tra le aree con la produttività più alta del Paese, “il nord”, e quelle con la produttività più bassa, “il sud”. Le aree con minore produttività, a parità di cambio e di dazi, non possono competere con quelle a produttività più alta. Il sud Italia non poteva competere con le pmi del nord senza una valuta diversa e più debole e senza proteggere le proprie imprese con dazi differenti. Le due aree per molti decenni hanno convissuto perché il surplus del nord, generato anche grazie a una valuta più debole del dovuto, veniva condiviso con il sud e a Milano una maestra prendeva lo stesso stipendio che a Catanzaro.



Questo patto in Europa non c’è. Il surplus record e fuori da qualsiasi ragionevolezza tedesco fatto con il contributo decisivo di una valuta molto più debole del marco rimane in Germania. Le imprese italiane, soprattutto quelle del sud, non possono competere con quelle tedesche a parità di cambio, di dazi, con tasse e costo del debito superiori. Durante le fasi di crisi come nel 2008-2012 nemmeno le migliori imprese italiane possono pensare di competere con quelle tedesche con politiche economiche più restrittive e costo del debito molto superiore. Infatti, in quattro anni l’Italia ha perso il 25% della propria produzione industriale. L’Italia non poteva introdurre dazi e non poteva svalutare. Per la Francia il discorso è diverso perché la Germania non è un suo concorrente industriale diretto.



L’unica flessibilità che rimane alla periferia è l’austerity, con conseguente deflazione, in cui si decide esplicitamente di contrarre l’economia per abbassare il costo del lavoro e recuperare un po’ di competitività. Monti, da presidente del consiglio, dichiarava in inglese che voleva “distruggere la domanda interna”; un modo per dire che stava volontariamente impoverendo gli italiani per recuperare competitività abbassando i salari. A ogni recessione, a ogni crisi speculativa che si produce proprio a causa delle contraddizioni dell’euro, l’Italia, la periferia, ha come unica arma l’incremento della disoccupazione e la deflazione. A ogni crisi si mette sotto pressione l’Europa perché la periferia viene devastata.

Se il patto che è esistito tra nord e sud Italia non si trasferisce in Europa con i tedeschi che reinvestono il loro surplus in Calabria per l’Italia, le uniche due conclusioni possibili sono la perdita completa della propria capacità industriale, causa “spread” e restringimento del credito, o l’uscita dall’euro. Ripetiamo: dentro l’attuale costruzione europea, senza un patto tra periferia e centro simile a quello che esisteva tra nord e sud Italia, le uniche due conclusioni possibili sono che l’Italia diventa la Grecia oppure che esce dall’euro. L’altra possibilità era che gli italiani diventassero tutti e senza esclusione tedeschi il secondo dopo l’introduzione dell’euro; ma per questo, sempre ammesso che fosse realistico, oggi è troppo tardi.

La volontà a livello europeo, di cambiare profondamente l’assetto dell’Europa, replicando l’esperimento, di successo, italiano del dopoguerra non sembra esserci. La manovra italiana non aiuta perché il reddito di cittadinanza e la riforma delle pensioni che sono vissute con grande insofferenza già al nord fuori dall’Italia sembrano lunari. Da parte italiana e da parte europea non sembra esserci alcuna volontà di rimanere assieme. Dalla Germania escono segnali sempre più forti di voler uscire da un progetto disfunzionale come l’Unione europea.

L’Europa è oggetto di tensioni geopolitiche a cui varrebbe la pena dedicare molto più spazio. È una coincidenza che le negoziazioni sulla Brexit, che è nata e ha senso solo come progetto concorrente e antagonista all’Europa, vivano i loro mesi decisivi in un’Europa squassata dalla speculazione e dalla (inevitabile?) ribellione italiana? È possibile che quel Frankenstein di nome Unione europea oggi non serva più al suo creatore? La Germania che unica alza la voce contro la cancellazione del trattato sulle armi nucleari e che tira dritto sul Nord Stream 2 di fronte a una possibile disgregazione o, semplicemente, di fronte a una recessione globale che metterebbe a nudo la periferia e le contraddizioni dell’euro con ogni probabilità deciderà di rimanere “libera” e portarsi via il bottino, fatto anche a danno dell’Italia, di 20/30 anni di integrazione europea. Vista la gestione del 2011/2012 ci sembra che la Germania continui a pensare l’euro e l’Europa opportunisticamente; in ottima compagnia tra l’altro. I tedeschi, per la cronaca, sanno perfettamente quello che è successo, chi ha perso e chi ha guadagnato in 20 anni di euro.

Sullo sfondo rimane una questione di cui non si parla più. Se il patto che esisteva tra nord e sud Italia non si perpetua a livello europeo, il nord Italia non avrà nessun incentivo a rimanere “intrappolato” nella periferia europea fatta di spread a 400, patrimoniali, tasse e opposizione ideologica a qualsiasi infrastruttura. Il patto del dopoguerra non funziona più perché sul piatto della bilancia non c’è la lira, ma una valuta molto più simile al marco. E quindi meglio diventare tedeschi e prendersi il costo del debito basso. Proprio in queste settimane (un’altra coincidenza?) si sta facendo un salto quantico sul federalismo fiscale a testimonianza che i difetti di costruzione dell’Europa aprono una faglia dentro l’Italia.

Di tutto questo in Italia non si parla; ma appena fuori dalle Alpi di questi argomenti si discute approfonditamente almeno dal 2012. Scontrarsi con l’Europa come sta avvenendo ora lascia all’Italia solo due modi per vincere: che i tedeschi cambino idea e firmino il patto che il nord Italia aveva con il sud (auguri) oppure l’uscita dall’euro. Il terzo scenario, quello della continuazione e ultimazione del processo di colonizzazione, è la ragione ultima dell’assenza di opposizione; magari manca la comprensione, ma il sesto senso di capire che quello che ci hanno propinato finora, il ruolo che l’Italia aveva nella costruzione dell’Europa, fosse una fregatura tendenzialmente si è capito. Potremmo sempre diventare tedeschi, ristrutturando profondamente la macchina pubblica soprattutto al sud e con particolare attenzione al funzionamento della giustizia, ma sinceramente ci sembra troppo tardi e il clima politico troppo degenerato.

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