Deficit/Pil al 2,4% nel 2019, poi il disavanzo dovrebbe scendere al 2,1% nel 2020 e all’1,8% nel 2021, mentre il Governo si impegna a tagliare il rapporto debito/Pil “di oltre 4 punti percentuali” fino al 126,5% nel 2021. Questi i numeri annunciati ieri in conferenza stampa dal governo giallo-verde dopo il vertice sul Def. “Mostriamo coraggio soprattutto per il 2019, perché riteniamo che il nostro Paese abbia bisogno di una manovra che solleciti una forte crescita” ha affermato Giuseppe Conte, mentre il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha sottolineato che “nel profilo di deficit previsto il primo anno, ci sono 0,2 punti percentuali di investimenti addizionali, nel secondo anno ci sono 0,3 punti, nel terzo anno 0,4 punti. Questo descrive la qualità della manovra: puntiamo ad avere lo strumento degli investimenti pubblici come lo strumento principale per lavorare sulla crescita”. Sarà davvero così?
“Il nostro problema non è rilanciare i consumi, che stavano già crescendo, e non è nemmeno quello di rilanciare gli investimenti delle imprese, che con Industria 4.0 stavano addirittura volando; il nostro problema è rilanciare gli investimenti pubblici. E lo 0,2% previsto dal governo è troppo poco. L’unico modo per sforare con il deficit facendo investimenti pubblici è cambiare approccio con l’Europa, senza andare allo scontro frontale, spiegando invece che per far crescere di più l’Italia e per ammodernarla è giusto avere la flessibilità su questo, meglio con un grande piano europeo per togliere dal calcolo del deficit gli investimenti in opere pubbliche e in ricerca e sviluppo”. Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, teme che con il rallentamento dell’economia in atto gli effetti del deficit al 2,4% si facciano sentire subito sulla crescita, frenandola ancor di più, e sui conti pubblici, appesantendoli ancor di più.
Il governo Conte, dopo le “bocciature” dei mercati e dell’Eurogruppo, ha fatto marcia indietro: il deficit al 2,4% non sarà più triennale, ma valido solo per il 2019. Poi calerà. Che ne pensa?
È chiaramente un tentativo di addolcire il messaggio, ancora senza numeri di dettaglio, che è stato lanciato all’inizio fissando questo 2,4% secco per un triennio.
Che cosa avrebbe comportato questo livello di deficit?
Con un 2,4% secco per un triennio e in assenza di entrate straordinarie una tantum derivanti da privatizzazioni o misure del genere significa, avendo un Pil 2017 pari a 1.700 miliardi, fare più di 40 miliardi di deficit nel 2019, cioè 120 miliardi in tre anni. Ma se si considera che l’Italia ha strutturalmente circa 65 miliardi di interessi sul debito, cioè il 3,8% del Pil, tutti questi interessi, che diventano debito, vanno pagati. Grazie, però, a un avanzo primario di 25 miliardi, solo per il fatto che ci sono gli interessi da pagare il nostro debito ogni anno cresce di 40 miliardi. E il problema è che potrebbero anche essere di più, vuoi perché non ci sarà più il Qe, vuoi perché lo spread magari rimane alto. Quindi, anche se il 2,4% è una cifra – diciamo così – molto “simpatica”, ci troviamo in una situazione per cui o riusciamo a produrre sempre un avanzo primario di almeno 25-30 miliardi oppure tutti quei 65 miliardi di spese per interessi diventano tout court debito. Senza dimenticare che il 2,4% è in controtendenza con il risultato dell’anno scorso: era il 2,3%, ma senza i salvataggi delle banche una tantum sarebbe stato dell’1,9-2%, mentre quest’anno avrebbe dovuto essere, in base agli accordi assunti con la Ue, l’1,6%. Peccato che, a causa del rallentamento in atto della crescita economica, già quest’anno potremmo chiudere all’1,8-1,9%, se va bene.
Morale della favola?
Il 2018 sarà un anno deludente, con risultati di deficit più alti di quelli previsti, ma sono abbastanza confidente che il rapporto debito/Pil, nonostante tutti i problemi, possa ancora diminuire, magari anche solo di un paio di decimali.
Che cosa glielo fa credere?
Stiamo ancora vivendo l’abbrivio del famoso “sentiero stretto” di Padoan, che ha già fatto scendere il debito/Pil negli ultimi tre anni di sei decimali. Ed è pure calata la pressione fiscale.
Ora arriverà la flat tax…
Di flat tax ancora non si è visto nulla, mentre la pressione fiscale nel 2017, grazie a crescita e riduzione delle tasse, è diminuita di 1,4 punti rispetto al 2014. Cosa che non è mai accaduta in una singola legislatura per quattro anni di fila.
Quindi?
Quindi oggi si sta andando a intervenire su un’economia che magari non faceva sfracelli, ma che aveva rimesso a posto alcune cose: il Pil è cresciuto del 3,8% nel periodo 2014-2017, pur non avendo fatto spesa pubblica, che invece adesso si vuole fare; i consumi privati sono aumentati del 5,2%; gli investimenti fissi lordi del 7,7%, cioè due volte il Pil. Insomma, siamo andati bene con le sole componenti dell’economia privata, a partire da una delle più robuste crescite degli investimenti in macchinari, grazie a Industria 4.0 e ai superammortamenti.
E ora?
Di Maio ha detto che vuole iniettare 10 miliardi per aumentare la domanda. Beh, secondo me, di fatto è la prosecuzione degli 80 euro decisi da Renzi, ma con la differenza che mentre quegli 80 sono stati distribuiti a un ceto medio poco abbiente – e parlo di 9 miliardi di euro all’anno per 11 milioni di persone, non bruscolini – senza peggiorare i conti pubblici, stavolta si danno 10 miliardi a chi? Chi stabilisce a chi darli? Ai più poveri? Ma saranno veramente poveri? Con quali parametri? Quale burocrazia interverrà, visto che ancora non ci sono i Centri per l’impiego? Temo che ci sarà gente che continuerà a lavorare in nero e prenderà il reddito di cittadinanza. Siamo in presenza di qualcosa che supera qualunque logica economica.
Lei è contrario all’idea di rilanciare la domanda?
No, non sono contrario, ma bisogna stare attenti a non sfasciare i conti pubblici, altrimenti ci troviamo 20 miliardi di debito pubblico in più solo perché si è sforato ogni sorta di vincolo. Oltre tutto, senza neppure fare veramente crescita, visto che gran parte delle risorse sarebbero destinate ad aumentare le pensioni e a distribuire sussidi a pioggia. Pensiamo invece agli investimenti in macchinari. In base alle serie storiche dell’Istat, in quattro anni a valori correnti la crescita ha generato una cifra che vale da sola una Finanziaria di questo governo. Questa sì che è crescita attraverso gli investimenti. Molti di quei macchinari, poi, sono stati realizzati in Italia, principale produttore al mondo assieme alla Germania. Non abbiamo comprato computer fatti dai cinesi, ma macchine tessili, per l’imballaggio eccetera prodotte in Brianza, a Bologna, nel Veneto. Abbiamo cioè creato domanda e l’abbiamo soddisfatta con produzione nazionale.
Torniamo al deficit al 2,4% nel 2019. Su un’economia in rallentamento, che impatto avrà?
Se si calcola una crescita più bassa ci ritroveremo, anziché il 2,4%, un 2,6%, visto che il denominatore sarà più piccolo del previsto. E distribuendo gran parte delle risorse in misure assistenziali, sarà difficile avviare una crescita più robusta. Oggi, poi, c’è una certa prudenza, perché il rallentamento e l’incertezza bloccano tutto: consumi, investimenti e assunzioni. Anzi, con il decreto dignità sono state complicate le procedure per le assunzioni, con il rischio di creare più lavoro nero che contratti a tempo indeterminato.
Secondo lei, il governo cosa avrebbe dovuto fare?
Se fossero stati più accorti e avessero mantenuto le misure già in essere, dopo aver raccolto un grande consenso popolare con la lotta all’immigrazione e se i Cinque Stelle si fossero dedicati con impegno a varare misure a favore delle imprese, iniziando con la riforma dei Centri per l’impiego, ora avrebbero ottenuto un buon risultato economico quasi senza colpo ferire. Viceversa, con l’esigenza di voler dimostrare che stanno operando un cambiamento epocale, si ritrovano con l’adottare, in tempi brevissimi, misure che rischiano di pregiudicare la stessa ripresa economica. Il rischio è che l’aumento del tassi, con uno spread stabile sopra i 300 punti, anche senza arrivare ai livelli del 2011, avrà impatti sull’economia che finiranno con il vanificare tutto il resto. L’aumento degli interessi significa infatti che le banche daranno soldi in misura meno abbondante all’economia reale e alle famiglie. E non solo.
A cosa sta pensando?
Le stesse banche probabilmente adesso, per pareggiare la svalutazione dei titoli di Stato che tengono in pancia, stanno comprando i titoli che vendono gli stranieri. E quando dico banche intendo i depositi dei risparmiatori italiani. Il nostro sistema finanziario, bancario, assicurativo e dei fondi pensione ha i denari degli italiani investiti in titoli di Stato: stiamo parlando di più di 900 miliardi. Oggi questa ricchezza privata è allocata nell’acquisto di titoli pubblici e di fatto le banche italiane stanno sostenendo con i soldi delle famiglie il debito pubblico italiano per metà; l’altra metà la sostengono gli stranieri. Ma se scappano? Chi comprerà i nostri titoli pubblici? C’è una forma di statalizzazione strisciante in corso che fa perdere la fiducia a tutti: alle famiglie, alle imprese, agli investitori. Stiamo scherzando con il fuoco.
Il governo vuole rilanciare la crescita e la fiducia con gli investimenti. Al momento solo lo 0,2 del deficit è destinato agli investimenti addizionali. Non le sembra insufficiente?
Certo che è poco. Dopo una campagna elettorale ruspante, sarebbe stato meglio tenere in piedi tutto quello che c’era – nessuno ha abolito gli 80 euro, nessuno ha tolto gli investimenti in Industria 4.0, l’unico motore che sostenendo il Pil – e andare poi a Bruxelles dicendo: l’unica cosa che non cresce in Italia sono gli investimenti in opere pubbliche e costruzioni. Perciò avremmo dovuto spingere per un piano, valido non solo per noi ma per tutti i Paesi europei, per congelare gli sforamenti di deficit legati a investimenti infrastrutturali ad alto moltiplicatore sull’economia, sul territorio, sulla società e sulla ricerca scientifica.
C’è chi dice che l’Italia si sta avvicinando sempre di più alla Grecia. Lo teme anche lei?
No, tra la Grecia e l’Italia passa la stessa differenza che c’è tra un asteroide e Giove, dal punto di vista della robustezza e della stabilità finanziaria. Però, se anche un grande pianeta viene portato fuori rotta, rischia di andare a scontrasi con altri pianeti e ne salta fuori una catastrofe. Non siamo come la Grecia, ma siamo un Paese ad altissimo rischio, perché le variabili che fin qui ci hanno permesso di ripagare un debito pubblico così alto – economia reale, surplus commerciale con l’estero, risparmio privato, avanzo primario – li stiamo massacrando, siamo arrivati al limite. Se riduciamo l’avanzo primario, gli investitori stranieri ci abbandonano.
I rapporti con l’Europa sono molto tesi. Ci conviene tenere tirata la corda?
Le regole europee sono quelle che ci permettono di stare nell’euro, ma se non vogliamo più starci, dobbiamo solo farci il segno della croce, perché la nostra industria, tra le più forti al mondo, non ha uno straccio di materie prime, che deve comprare tutti i giorni con una moneta, l’euro, che oggi è forte. Ma se un domani dovessimo acquistarle con la lira, non è che possiamo sperare che ci troveremo tanto bene. Anche perché non è detto che gli altri Paesi non ci impongano dei dazi. Se vogliamo combattere a colpi di svalutazioni, torniamo agli anni 90. Allora, però, c’era il liberismo, mentre oggi c’è il trumpismo. Se non capiamo che lo scenario geopolitico è questo, rischiamo di sbagliarci a 360 gradi.
(Marco Biscella)