Caro direttore, secondo il vicepremier Di Maio l’Italia può seguire la Francia sulla via dell’aumento del deficit. Nel Def si è stabilito che esso possa raggiungere il 2,4% del Pil, che rappresenta una cifra molto distante da quella ipotizzata inizialmente dal ministro dell’Economia Tria, il quale puntava su un 2% da intendersi come soglia psicologica per evitare che il debito pubblico italiano fosse (e sia) considerato un problema dai mercati. Sappiamo infatti che la soglia massima imposta da Maastricht per il rapporto deficit/Pil è il 3%, ma per situazioni oggettivamente diverse da quelle in cui si trova l’Italia di oggi. Se il debito pubblico italiano, già enorme, aumenta, le valutazioni delle agenzie internazionali peggiorano, lo spread coi Bund tedeschi, più affidabili, si accresce e le banche potrebbero chiedere maggiori interessi scoraggiando gli investitori. 



A questo il Governo risponde rilanciando un piano di investimenti (soprattutto) pubblici per migliorare e rendere più sicuro il Paese, diminuendo la spesa e sviluppando un meccanismo grazie al quale il deficit non aumenterebbe nel caso in cui la crescita del Pil, da sostenere in tutti i modi possibili a questo punto, non impedisse di superare la soglia del 2,4%. Un meccanismo molto semplice in realtà: quello per cui in caso di pericolo si andrebbe a tagliare proprio dove Di Maio non vorrebbe, ossia alla voce “spese sociali” – leggi: il suo amatissimo (e imprescindibile, per lui) “reddito di cittadinanza”. Misura che chi scrive guarda con qualche perplessità, in quanto le statistiche della  situazione lavorativa al Sud non danno conto del grande mercato del lavoro in nero (qualcuno crede davvero che la disoccupazione nel Mezzogiorno sia del 20%, tre volte quella del Nord?), per cui il rischio reale è quello di dare soldi a chi, soprattutto – ripeto – in Meridione, già li fa violando le leggi dello Stato (non pagando tasse, contributi e così via).  



Ma, per tornare al discorso sul deficit, occorre aggiungere che vari studi hanno segnalato che quando il debito pubblico di un Paese supera il 90% del Pil, la sua economia non sarebbe più in grado di crescere. È quanto possiamo osservare nel caso italiano, che anzi suscita qualche perplessità, perché una crescita, per quanto modesta, c’è da sempre, a parte quella mancata degli anni della grande crisi finanziaria internazionale. E  una situazione del genere ricorda a chi scrive la storia del calabrone che non dovrebbe volare perché troppo pesante per le (piccole) ali che ha, eppure ci riesce lo stesso: Italia calabrone – e non solo cicala – quindi? 



Inoltre, per tornare invece a Di Maio e alle sue affermazioni, stando ad alcuni osservatori sbaglia quando parla di un confronto possibile tra Italia e Francia, in quanto non avrebbe visto i numeri delle due economie, a partire da quelli riguardanti il Pil e le sue dimensioni. In realtà la grandezza del Pil non c’entra nulla con una valutazione del deficit possibile, al contrario di quanto si dovrebbe dire della sua crescita. E certamente il Pil non suggerisce molto se non si confronta con altri fattori. Uno di questi è la popolazione, per cui un Pil (tutto sommato) simile distribuito su popolazioni diverse non misura la reale ricchezza della nazione, se per nazione si intende la sua popolazione (nel caso in cui, naturalmente, ci sia una ricchezza distribuita in maniera dignitosa: Spagna, insomma, non Brasile). 

La Francia ha un Pil superiore oggi come oggi a quello italiano (non è sempre stato così), sì, ma da spalmare su una popolazione maggiore dell’11%. Inoltre, la Francia ha molta meno economia in nero dell’Italia, economia che se da una parte frena lo sviluppo, dall’altro si sottrae ai numeri delle statistiche economiche. Infine, la Francia ha un peccato originale gravissimo, che l’Italia non ha: la sua dipendenza dalle vaste zone del mondo dove cerca di mantenere ancora un’influenza politica, militare ed economica, a partire dall’area sahariana e sub-sahariana, residuo di un colonialismo violento che dovrebbe, invece, lasciarsi completamente alle spalle (e di cui si dovrebbe vergognare). 

La Francia con il sistema monetario del franco cfa tiene ancora sotto il tacco ben 14 paesi africani (14!), dai quali, secondo le ultime statistiche, ottiene qualcosa come circa 500 miliardi di dollari (500 miliardi!) di rimesse ogni anno per la sua rete bancaria. Rete che sostiene a sua volta le imprese transalpine le quali, pur non avendo spesso la liquidità di quelle (ad esempio) italiane – nel campo della moda, della grande distribuzione, ecc. -, possono contare su un sostegno finanziario più forte in quanto “drogato” appunto dalle entrate africane (le quali, tra l’altro, rappresentano solo un aspetto di tutta la faccenda del rapporto “malato” e corrotto – sì, corrotto – tra la Francia e molte ex colonie di cui non si parla mai in Europa, e questo è molto, molto strano…). 

Conclusione: chi mette a confronto Italia e Francia per fare commenti a favore di quest’ultima dimostra scarsa lucidità, e sostiene una nazione che invece meriterebbe di essere messa sotto i riflettori (di un tavolo di interrogatorio poliziesco) per il suo mancato rispetto di un sistema internazionale di concorrenza realmente libero e serio. La Francia azzoppa il mercato drogando la sua economia e non merita quindi alcun complimento, come non lo merita quando, ancora una volta contro il  mercato, impedisce di comprare le proprie aziende invocando ogni volta questioni di sicurezza nazionale (anche quando si tratti di imprese nel campo dei latticini): ovviamente può fare questo innanzitutto grazie, e torniamo al punto e a capo, a un sistema finanziario drogato, senza il quale avrebbe molte meno aziende non potendole più difendere con soldi “nazionali” come vorrebbe. E questo è esattamente quanto non ha mai potuto fare la tanto bistrattata Italia.

Ad avviso di chi scrive, la Francia non merita quindi di sentirsi fare i complimenti dai giornali di un diretto concorrente come il nostro Paese, a cui sottrae clienti, o addirittura mercati, grazie a manovre talvolta sfacciate e volgarissime. Quella della Libia è un caso eclatante (volgarissimo anche perché deciso da un energumeno di nome Sarkozy – a proposito, l’hanno finalmente arrestato? Le accuse contro di lui erano gravissime), ma di casi del genere se ne possono portare altri: ancora di recente per paura che l’Italia potesse sviluppare rapporti coi paesi sahariani approfittando dei colloqui sui migranti, il ministro dell’Interno del poverissimo Niger ha fatto per l’ennesima volta da ventriloquo di Parigi e ha detto di non volere la presenza militare e logistica delle forze italiane al fine di salvaguardare – ohibò – la sovranità del proprio Paese (quello stesso, cioè, in cui non cade foglia – poche peraltro – senza che Parigi non voglia). Un’affermazione che sembra in effetti una comica. A questo punto occorrerebbe capire quante persone – politici (come certi ministri degli interni sahariani appunto), burocrati, uomini d’affari africani – stiano sul libro paga di Parigi. 

Ovviamente questo discorso ci porterebbe molto lontano, e ci farebbe toccare anche la questione degli appalti dati dai governi esteri (soprattutto se fragili) alle multinazionali che spesso – si sa – sono bravissime a oliare gli ingranaggi (comprese quelle italiane, per carità: Eni, parrebbe, e Finmeccanica in primis. Ma se così fan tutte…): Parigi, però, mi sembra davvero, in Europa, la prima della classe, mostrando una volta di più una rapacità che noi italiani abbiamo ben presente, derubati come siamo stati nei secoli dai (troppo spesso) disonesti, avidi e prepotenti cugini d’oltralpe. 

Se mi si permette di andare a ruota libera in questa conclusione, aggiungerei che la pugnalata che durante la Seconda guerra mondiale l’Italia (peraltro tristemente fascista, non dimentichiamolo) ha inferto alla Francia già crollata sotto i colpi di cannone dei panzer nazisti non compensa affatto – se si può dire così – le tante pugnalate che la Francia “liberatrice” solo a chiacchiere ha inflitto nei secoli alla nostra penisola.