La stagione del rialzo dei tassi è in pieno svolgimento. Incurante dei moniti di Donald Trump, il Presidente della Fed ha illustrato ai mercati la nuova strategia: basta con la politica accomodante sul costo del denaro, occorre alzare al più presto le leve del costo del denaro per tornare a tassi “normali” (inflazione più crescita del Pil, secondo i canoni classici) e così recuperare l’elasticità necessaria per contrastare la recessione che prima o poi arriverà. La novità ha avuto un’immediata eco sulle Borse. Certo, la Bce continuerà a tenere i tassi bassi per sostenere la ripresa, specie nei Paesi dell’Eurozona più sofferenti. Ma nessuno può illudersi che la diga di Mario Draghi possa durare all’infinito: non è pensabile che gli Usa accettino a lungo la prospettiva di un euro debole a sostegno di un surplus commerciale europeo che Donald Trump sopporta con nervosismo crescente. 



La svolta arriva in un momento particolare per il mercato italiano, specie per le banche. Lo spread sta colpendo gli istituti di credito su due fronti: da un lato taglia la solidità patrimoniale andando a premere sul Cet 1 ratio, dall’altro aumenta il premio di rischio sugli Npl. I crediti deteriorati in pancia alle banche vengono così valutati meno e sono più difficilmente liquidabili. Per diminuire il peso degli asset che la Banca centrale europea definisce rischiosi, ovvero i titoli di Stato, agli istituti di credito non resta che vendere Btp. L’esatto opposto, insomma, di quanto rischia di capitare con una manovra giudicata “allegra” da mercati e partner Ue. A fronte di una congiuntura economica positiva ma quasi solo per il contributo Usa. 



Le Borse segnalano il diverso andamento tra le economie. Da inizio anno l’indice Msci World, senza gli Stati Uniti, perde il 4,4%, l’indice Msci Stati Uniti guadagna il 9,5%: un simile gap non si vedeva da trent’anni. Il P/E (rapporto Prezzo/Utili) di Wall Street è il doppio della media delle Borse mondiali: cose mai viste dal 2005. In particolare gli Stati Uniti registrano un rialzo del 9% per l’SP 500 e del 15% per il Nasdaq. Al secondo posto troviamo il Giappone, positivo del 5%. Segue l’Europa, compresa tra il rialzo di Parigi del 2% e la discesa del 3% di Londra e del 5% per Francoforte. Fa storia a sé Piazza Affari, -9,2% su base annua, un ritardo accumulato nell’ultimo semestre. Sotto di noi solo la Cina. All’ultimo posto Shanghai perde il 15% e Shenzhen, in pieno bear market, lascia sul terreno un quarto del suo valore. 



È una classifica giusta? Secondo alcuni osservatori il dato è drogato dai sostegni straordinari (la riforma fiscale, innanzitutto) che hanno tenuto su la Borsa Usa. Il Credit Suisse invita a ridurre l’esposizione su Wall Street, nonostante la forza del dollaro: il divario con le Borse europee ha raggiunto “livelli allarmanti” se si mette a confronto la redditività dell’Europa, pur in discesa, con quella a stelle e strisce. Ma l’Europa, alla vigilia di una stagione elettorale assai complessa, fatica a trovare risposte convincenti sui dossier–chiave, dalla Brexit alla questione migranti. 

Il ritardo borsistico della Cina è l’indice di una frattura profonda, la conseguenza più clamorosa del tramonto della globalizzazione. L’accusa Usa a Pechino di aver inserito “chip spia” in una trentina di prodotti americani (tra cui l’iPhone e la tv di Amazon) che usano componenti made in China è la punta più avanzata delle contestazioni di Trump alla Cina, qualcosa che va ormai assai al di là del confronto sui dazi. Tra le due superpotenze si sta alzando una sorta di cortina elettronica che condurrà alla frattura delle filiere produttive tra le fabbriche cinesi e la Corporate America, che si tratti di Silicon Valley o di Wal-Mart. 

E l’Italia? In questa cornice saltano all’occhio i guasti che ci siamo inferti da soli, con un atteggiamento da “rivoluzione permanente” senz’altro efficace sul piano della propaganda interna, assai dannoso nei confronti dei mercati. È prevedibile che il quadro non cambierà nelle prossime settimane. A danno dei Btp più lunghi, bersaglio delle vendite di banche e istituzionali. E dei titoli bancari, rassegnati a una robusta tosatura fiscale. Ma i broker stanno inquadrando nel mirino i titoli a breve. Nessuno, per ora, crede all’uscita dell’Italia dall’euro, perciò la febbre prima o poi rientrerà. E la speculazione farà l’affare dell’anno. Sotto il cielo a Cinque Stelle.