Quanto costa il reddito di cittadinanza? È la domanda che si pongono tutti, gli italiani come gli stranieri, compresi gli operatori sui mercati e gli analisti delle agenzie di rating che a fine mese dovranno compilare la pagella del debito italiano. Stando alle cifre del Documento di economia e finanza aggiornato, nel bilancio dello Stato dovrebbero esserci a disposizione nove miliardi che bastano per dare 780 euro al mese a 961 mila persone. Altro che fine della povertà come sbandiera Luigi Di Maio (lo ha ripetuto anche ieri sul Corriere della Sera).
Quando era all’opposizione, aveva fatto altri conti che s’avvicinavano ai 20 miliardi. Anche la matematica è una variabile dipendente dalla propria collocazione politica. Così spuntano le “spese immorali”, i limiti a chi possiede la casa di proprietà e tutta un’altra selva di paletti; ce ne sono tanti che nemmeno Alberto Tomba riuscirebbe a completare questo slalom.
Ma il vero costo, quello che peserà su tutti gli italiani che pagano le tasse, si chiama pressione fiscale. Perché dalle 123 pagine della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, emerge chiaramente che il peso dei tributi resterà sostanzialmente lo stesso, tra il 41% e il 42% del reddito nazionale. Si parla di “riduzione graduale”, ma non s’azzardano previsioni precise. Bel risultato per chi voleva imitare Ronald Reagan o, più modestamente, Donald Trump. E questo accade perché vengono privilegiate le spese correnti e le distribuzioni assistenziali.
Il bi-ministro a cinque stelle insiste che i soldi per coprire le promesse elettorali si trovano, ma non riesce mai a spiegare dove. Ha celebrato dal balcone di palazzo Chigi la sua “vittoria”, imponendo al ministro Tria un disavanzo pari al 2,4% del prodotto lordo, però la realtà delle cose gli sta rovinando la festa. Di qui al prossimo lunedì 15 ottobre, quando dovrà essere presentata Legge di stabilità che contiene non solo aride tabelline, ma l’elenco delle misure da prendere, sarà una settimana di estenuanti trattative, una partita a tre che vede Di Maio e Matteo Salvini tirare la coperta ciascuno dalla propria parte e Tria lì a tagliare e cucire per poi ammettere che la coperta è irrimediabilmente troppo corta. A meno di trasformarsi nel mago Merlino, finirà in un vicolo cieco.
C’è già stata una prima marcia indietro rispetto ai trionfalistici annunci. Si era detto che il disavanzo sarebbe rimasto al 2,4% per tre anni. In questo modo però, il debito pubblico sarebbe irrimediabilmente aumentato. Quindi il mitico 2,4% vale solo per il 2019, poi comincia la discesa, anche se meno rapida (o ripida) di quella prevista da Pier Carlo Padoan: 2,1% nel 2020 e 1,8% nel 2021. Il saldo strutturale (cioè al netto delle spese per gli interessi) resta costante all’1,7%. Anche il debito rimane grosso modo lo stesso (130% del Pil invece del 130,9%) l’anno prossimo per poi ridursi sia pur lentamente.
Tutto questo, però, è legato a una vera e propria scommessa: un aumento del prodotto lordo superiore a quello previsto finora da tutti gli analisti esterni (Bce, Ue, Fmi e compagna cantando) e dal Def del precedente Governo. In sostanza, il ministro dell’Economia punta sulla possibilità di portare la crescita all’1.5% e all’1,6% nei prossimi due anni. Insomma, secondo questa impostazione iper-keynesiana, il deficit pubblico dovrebbe fare da acceleratore con un impatto notevole: 0,6 punti di Pil l’anno prossimo quando la crescita tendenziale sarebbe dovuta scendere allo 0,9% e mezzo punto nel 2020. Come?
Finora sia Giovanni Tria, sia Paolo Savona avevano spiegato urbi et orbi che la spinta sarebbe venuta dagli investimenti pubblici e il ministro dei rapporti con l’Europa aveva parlato di 50 miliardi di euro in più, spingendosi a prevedere che ogni euro speso ne avrebbe generati altri tre o persino quattro in alcuni casi. Tralasciando dotte discussioni sulla teoria del moltiplicatore, la capacità dello Stato italiano di spendere (e bene) non si è mostrata finora all’altezza delle aspettative del professor Savona. Nella Nota di aggiornamento c’è scritto 150 miliardi già stanziati, 118 “immediatamente attivabili”, anche se aggiunge che non sarà facile trasformarli in cantieri. Se poi parliamo di infrastrutture, ai ritardi burocratici e alle inefficienza s’aggiunge l’opposizione ideologica ai “grandi lavori”, annidata nel Movimento 5 Stelle a cominciare dal ministro Toninelli.
Aspettiamo naturalmente la legge, ma il sospetto che le previsioni sull’andamento del Pil siano troppo ottimiste è più che legittimo, anche perché dal bilancio pubblico giallo-verde è sparita qualsiasi spending review. Non è che il centro-sinistra si sia distinto in risparmi fino all’osso, ma almeno aveva usato le forbicine. Questa volta nemmeno quelle.
La Lega che tuonava contro le spese improduttive, ha ripiegato la bandiera della flat tax a favore della sua battaglia contro la Legge Fornero. Punta molto sul condono fiscale le cui entrate sono, però, una grande incognita. Tria sarà costretto a ritoccare l’Iva o a tagliare deduzioni e detrazioni, mancando così di ridurre la pressione tributaria. Può darsi che il vero scopo sia redistribuire la torta favorendo i lavoratori autonomi invece dei lavoratori dipendenti, tuttavia, secondo prime stime, ben tre milioni di partite Iva rischiano di subire una stangata.
Il tempo dei maghi e degli affabulatori è finito, è il momento di una leadership politica in grado di gestire questo difficile passaggio, rassicurando i risparmiatori (italiani e stranieri) e gli elettori, grazie a un discorso di verità, dicendo basta alle “narrazioni” fantasiose e alla demagogia elettoralistica. Un bagno di realtà ha un costo politico, ma senza dubbio inferiore a quello provocato da una nuova tempesta finanziaria sull’Italia e sulla zona euro. Lunedì 15 capiremo se a palazzo Chigi c’è chi conosce la difficile arte del governo.