“La Nota di aggiornamento del Def contiene un elemento di fondo, cioè il rapporto tra sostegno al reddito e politiche degli investimenti, che mi sembra sia affrontato in maniera contraddittoria e poi credo che ci siano tutta una serie di questioni di merito che secondo me andrebbero sciolte ancor prima di presentare la legge di Bilancio, visto che il Def è stato già inviato al Parlamento e a Bruxelles”. Amedeo Lepore, per anni assessore alle Attività produttive della Regione Campania e oggi professore di Storia economica all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, contesta soprattutto l’assunto che a determinare la svolta a favore di una crescita robusta siano le misure di sostegno al reddito, come reddito di cittadinanza e flat tax per piccoli, professionisti e artigiani. “Hanno un impatto limitato, quel che serve sono gli investimenti produttivi”. E concorda con Giulio Sapelli sulla necessità di riscoprire la funzione, nei primi anni di attività molto propulsiva, della Cassa per il Mezzogiorno, in una versione aggiornata. “E’ una sciocchezza – aggiunge Lepore – affermare che l’industria è finita: oggi dobbiamo agganciare la quarta rivoluzione industriale e un nuovo concetto di internazionalizzazione, altrimenti siamo destinati a un ruolo marginale”.



Professore, come giudica la Nota di aggiornamento del Def?

Noto due cose: la prima è che si legge testualmente che “la legge di Bilancio 2019 proseguirà le politiche di promozione degli investimenti, dell’innovazione e del miglioramento dell’efficienza energetica delle abitazioni”. È una correzione di rotta rispetto alle politiche in atto e, se così fosse, significherebbe una linea di continuità con quanto di positivo è stato fatto in questi ambiti.



E la seconda affermazione?

Riguarda l’assunto che solo un credibile e prolungato sostegno ai redditi può migliorare le aspettative, a partire da una più decisa ripresa degli investimenti privati. Su questa valutazione nutro però qualche dubbio.

Perché?

Il dato di fondo, secondo me, è che dal punto di vista della crescita economica bisognerebbe puntare su un “keynesismo dell’offerta”. In altri termini: se si vuole superare un gap strutturale, c’è la necessità di puntare prevalentemente sugli investimenti.

Il Def su questo tema non spreca molte cifre…

In questa parte del Def si afferma che si mettono in campo investimenti pubblici, per le infrastrutture ma non solo, essenzialmente già programmati con l’intento di accelerarli. Quindi non mi pare ci siano indicazioni di nuovi investimenti. Ma la quota destinata agli investimenti mi pare abbastanza delimitata. E ci sono punti che andrebbero chiariti.



Quali?

Che cosa si intende quando si dice che gli investimenti vanno effettuati soprattutto nelle piccole opere, visto che quelli già programmati riguardano opere significative? E quando si parla di partenariato pubblico/privato, tema molto interessante, in che modo lo si vuole sviluppare? Solo con le semplificazioni, che sono certo un elemento positivo? O attraverso una revisione del Codice degli appalti? Oppure: attraverso un infittimento degli stimoli agli investimenti privati e un diverso rapporto tra intervento pubblico e privato? È un tema che rimane aperto. E ancora: si dice che si vuole proseguire e intensificare l’azione su Industria 4.0. Tutte affermazioni di principio che si dovrebbero tradurre in risorse destinate a questa attività.

Secondo lei, il Def individua delle priorità?

Ne individuo cinque e tutte mi pongono delle domande e mi lasciano dei dubbi.

Proviamo a elencarle?

La prima: il reddito di cittadinanza che assorbe anche il Rei. E già su questo ci sarebbe da discutere.

In che senso?

L’estensione del Reddito d’inclusione potrebbe essere un’idea positiva. Quanto al reddito di cittadinanza, siamo sicuri che conduca a una connessione tra nuova formazione e sviluppo dell’occupazione produttiva? O diventa un provvedimento di mero sostegno al reddito?

La seconda priorità?

Sulla riforma delle pensioni, al di là delle compatibilità economiche, siamo sicuri che di per sé possa creare nuova occupazione, aiutare l’accesso di nuove generazioni al lavoro produttivo? Ritengo che ci siano strumenti più efficaci a tal fine e penso al credito d’imposta per gli investimenti, a interventi legati a Industria 4.0 e all’economia circolare.

Come giudica l’introduzione della flat tax?

La flat tax – terza priorità – verrà adottata per le piccole imprese, i professionisti e gli artigiani. Una misura positiva per queste categorie, ma in termini di impatto sul sistema avrà effetti abbastanza limitati. E soprattutto, può bastare la flat tax in misura ridotta per determinare una riduzione del cuneo fiscale? Qui c’è un problema di costo del lavoro e di riduzione del peso delle tasse sul costo del lavoro che non viene affrontato e che meriterebbe risposte più convincenti.

Nel Def si parla anche di riduzione del debito pubblico…

Per ridurre il debito si prevede un aumento del denominatore, ovvero redditi e investimenti, ma le due cose in che modo si tengono insieme? Si indicano cifre che sono troppo ottimistiche e non del tutto giustificate. E si parla anche di dismissioni immobiliari e di privatizzazioni, ma senza indicare quali.

Restano da valutare le ultime due priorità…

Che dovrebbero essere le principali. Da un lato, là dove si dice che il reinvestimento dei profitti e dell’occupazione determina meno imposte sugli utili d’impresa, portando al 15% la tassazione. Qui l’unica misura indicata è il superamento dell’Ace (Aiuto alla crescita economica), ma quali sono i provvedimenti che finanziano questa misura?

E il quinto obiettivo?

È l’aumento degli interventi per il manifatturiero, per le infrastrutture e per le costruzioni: obiettivamente è solo annunciato, ma non si specificano misure concrete. Proprio perché l’obiettivo principale, come dicevo, è quello di un credibile e prolungato sostegno ai redditi. Ma questa dovrebbe essere una misura ponte.

Quale dovrebbe essere la misura fondamentale?

Il rilancio degli investimenti produttivi, i soli che possono determinare una svolta nella crescita del Pil.

Si è discusso molto sui decimali del deficit. Che ne pensa?

Senza entrare nei decimali in più di deficit programmato, anche se in realtà di tratta di punti e non di decimali in più, il fatto che si sia passati da un deficit che rimaneva nei tre anni al 2,4% e invece scende nel triennio progressivamente all’1,8%, significa che, forse, l’indicazione fornita da Giulio Sapelli nell’intervista al Sussidiario sul fatto che bisogna tener conto di chi compra il debito e che bisogna tenere presente la fiducia di chi investe, è un tema che riguarda sia i decimali sia le politiche che vengono seguite. È un tema tutto italiano, che non riguarda l’Europa.

Converrà, però, che c’è un eccesso di burocrazia nell’impostazione che danno alcune parti delle istituzioni europee, non crede?

Certo, ma non bisogna neppure criminalizzare le agenzie di rating, perché lo spread è un indicatore del mercato. Bisogna tenerne conto, sempre, altrimenti senza questa consapevolezza il rischio è di andare a impattare con un problema che non è tanto come l’Europa si rapporta all’Italia, quanto come l’Italia affronta i problemi economici con cui deve fare i conti.

Che cosa intende dire?

Che la crescita economica si deve basare soprattutto sullo sviluppo produttivo e non solo su misure di sostegno al reddito, che di per sé non servono a giustificare una crescita economica. C’è un meccanicismo in questa convinzione del governo secondo cui una crescita del reddito può automaticamente portare a una crescita degli investimenti privati. La necessità invece è dare sostegno agli investimenti privati delle imprese, non solo di quelle piccole, ma anche delle medie imprese, che sono la spina dorsale dell’Italia. È una questione di fondo che non può essere sottovalutata.

L’impressione è che il Def si sia un po’ dimenticato del Mezzogiorno. O no?

Un tema affrontato dal Def in un solo passaggio riguarda le politiche di coesione e l’intervento nel Mezzogiorno, due aspetti strettamente connessi.

Anche qui domande e dubbi?

Sì. Si vuole proseguire sull’autonomia differenziata, ma mancano tre elementi chiave. Primo, i Livelli delle prestazioni essenziali: i Lep, vengono prima o dopo l’autonomia differenziata? Secondo, le materie concorrenti fra legislazione nazionale e legislazione regionale: è un tema da affrontare o no prima di parlare di autonomia differenziata? Terzo, la perequazione, prevista da una norma costituzionale e dalla legge Calderoli, ma che nel Def non viene trattata: la perequazione, nella definizione degli interventi, va attuata o va prima realizzata l’autonomia differenziata? Sono temi non pienamente sviscerati.

Per il Sud solo misure assistenzialistiche, a partire dal reddito di cittadinanza?

Ripeto: rimane prioritario il tema degli investimenti e della crescita produttiva, ma al loro fianco, specie al Sud, ci devono essere delle politiche che incentivino al lavoro. È il reddito di cittadinanza la misura più adatta o ci sono altre forme che meglio potrebbero accompagnare al lavoro e alla produzione? L’importante è non invertire i fattori, anche se il problema sociale nel Mezzogiorno va affrontato, però non semplicemente in termini di trasferimento di reddito.

Nell’intervista da lei ricordata, Sapelli auspica “un piano di ampio respiro” che recuperi “la funzione e lo spirito della Cassa per il Mezzogiorno dei primi anni”. È d’accordo?

Sono d’accordo con Sapelli sulla funzione della Cassa per il Mezzogiorno, anche se oggi non può essere riproposta sic et simpliciter. La Casmez – e qui invece non concordo con Sapelli –, ma più in generale l’Italia, riuscì a ottenere il miracolo economico proprio perché si inserì nel quadro delle istituzioni internazionali sorte a Bretton Woods, in particolare la Banca mondiale, che ebbe un ruolo propulsivo per lo sviluppo. Senza la Banca mondiale difficilmente quelle politiche, compreso il ruolo della Cassa, si sarebbero realizzate. Nei primi anni la Cassa per il Mezzogiorno ebbe successo perché, non ispirandosi a un modello liberista puro ma neppure statalista, diede vita a politiche industriali che miravano alla realizzazione di un tessuto industriale, che non c’era mai stato, nel Mezzogiorno. Guardava, come Saraceno ha più volte messo in evidenza, a una logica non di sostituzione del mercato, ma di creazione del mercato, con un tessuto produttivo che poi si sarebbe autoalimentato stando sul mercato. In quel periodo l’Italia riuscì a ottenere una doppia convergenza: non solo tra Nord e Sud, alimentando interessi reciproci in cui l’industria del Nord e quella del Sud erano complementari, ma a livello internazionale, recuperando su Paesi più avanzati. Solo dopo ha prevalso l’assistenzialismo, per colpa di una cattiva politica entrata nella Casmez per gestire il consenso e non per effettuare investimenti, facendo ripiegare il Mezzogiorno su se stesso.

È un modello ancora valido?

Sì, ma va aggiornato alle esigenze dell’oggi. Non si può dare vita a un modello neoliberista, ma neanche riproporre uno statalismo che non avrebbe alcuna possibilità di reggere nelle condizioni attuali. È una sciocchezza dire che l’industria è finita: oggi siamo di fronte a un nuovo sistema industriale, fatto di digitale, innovazione, ricerca e capacità di tenere insieme servizi e attività produttiva manifatturiera, che noi purtroppo non abbiamo saputo cogliere per tempo, affrontando la quarta rivoluzione industriale in ritardo. Il tema è per noi ineludibile. O ci agganciamo a una nuova idea dell’internazionalizzazione, in cui gli interessi nazionali possono coincidere e rapportarsi agli interessi di una parte più ampia, che poggia su nuovi ideali europeisti diversi da quelli che sono prevalsi in questi anni, altrimenti il risultato è già scontato: andiamo incontro a un indebolimento e a un declino.

(Marco Biscella)