Ve lo dico sempre e da sempre: la realtà non è mai quello che appare. Prendete il nuovo capitolo della saga migratoria verso gli Usa dalla frontiera messicana, tornata talmente d’attualità da vedere Donald Trump inviare l’esercito nell’area e promettere l’eliminazione di uno dei totem della cultura istituzionale statunitense, lo ius soli, il fatto che chiunque nasca su suolo americano, sia americano. Con tanto di passaporto. Argomenti forti per un Paese con i nervi a fior di pelle e mai così diviso sul tema. Tanto più, se mancano pochi giorni alle elezioni di medio termine e ogni voto può fare la differenza, soprattutto fra quella middle-class non ancora disincantata del tutto rispetto alla favola dell’economia che vola, ma che comincia a porsi dei seri dubbi rispetto alla reale agenda di priorità del Presidente.



Ora, partiamo da un dato di fatto: procedendo a poco più di dieci miglia al giorno, come stanno facendo, i bus carichi di profughi contro cui la Casa Bianca vuole muovere esercito e Guardia nazionale non arriveranno al confine di McAllen, in Texas, prima di febbraio. Quindi, ben più tardi dell’appuntamento elettorale di martedì prossimo, 6 novembre. Però, c’è un però. E lo pone in evidenza questo servizio andato in onda nel notiziario della sera di Fox News, certamente non una fonte assolutamente imparziale, vista la sua connotazione conservatrice, ma che fa riflettere. Il contenuto e la tesi della denuncia sono chiari: quei migranti non solo hanno rifiutato asilo, un tetto e un lavoro per il capofamiglia in Messico, ma quando tre settimane fa sono partiti dall’Honduras in direzione Usa lo hanno fatto su pullman che sono parte di un torpedone organizzato e con un timing ben preciso. E con una sorta di staffetta in atto, perché se dal luogo di partenza originario si sono mossi solo 11 buses, quando ne sarebbero serviti 80 per trasportare tutti le persone all’epoca presenti e volenterose di tentare la fortuna oltreconfine, altre due colonne si sono mosse dal Guatemala e dal Salvador verso il Messico e, colmo delle stranezze, un’altra composta da 11 mezzi sarebbe stata organizzata direttamente qui, nello stato di Oaxaca.



Insomma, c’è un tour operator della disperazione. Il cui scopo non pare quello di aiutare povera gente, né di farla arrivare al confine Usa in tempo per le elezioni di mid-term, scadenza temporalmente impossibile: l’importante era creare l’emergenza e renderla mediatica. Et voilà, missione compiuta, tanto che Trump ha mosso 5mila fra militari e soldati della Guardia nazionale per presidiare i confini. Insomma, qualcuno non solo si è interessato (quindi era a conoscenza) di quei gruppi di migranti fin dalla loro formazione in Honduras, ma li ha anche organizzati e facilitati nel loro spostamento su comodi pullman e non carcasse di fortuna. Il quale, giova ripeterlo, al 99,9% non terminerà non dico con il diritto d’asilo ma nemmeno con l’approdo al confine Usa: l’importante, è che figurino, che facciano parte della fiction. La quale, in vista del voto, paradossalmente e volendo pensar andreottinamente male, può far comodo a entrambi gli schieramenti in campo.



Non potendo ripetere la pantomima dei fermi brutali al confine messicano e il melodramma (poi dimostratosi falso come i soldi del Monopoli) delle famiglie divise e dei bambini piangenti nelle gabbie, ecco che si ricorre a uno schema nuovo e a una nuova immagine iconica: dove ieri c’era la stazione di polizia, buia e fredda, oggi c’è il bus. E tutti sappiamo cosa questo evochi nell’immaginario collettivo degli Usa, Paese della Route 66, del viaggio come esperienza di vita, di Kerouac e la sua strada, dei grandi spazi, dei Greyhonund che tagliano il Paese da parte a parte come una lama: ecco servito il sogno americano in versione disperata, la promessa tradita, l’opportunità negata da quello che un tempo era il Paese delle opportunità per antonomasia.

Schematizzando, se la mente dietro i viaggi della speranza in favore di telecamera stesse giocando contro Trump e in favore dei Democratici alla vigilia del voto di martedì prossimo, avremmo questi step: portare i migranti il più vicino possibile al confine Usa prima del voto, garantire massima copertura mediatica all’atto e contemporaneamente costringere la Casa Bianca a reagire duramente, convincere l’elettorato moderato e indeciso che votando Repubblicano vota per dei senza cuore che oltraggiano i valori statunitensi e, per finire, possibilmente in questo modo vincere le elezioni. Elementare, quasi banale: ma esattamente ciò che serve a convincere – anzi, irretire – il grande pubblico.

Di converso, se dietro tutto questo ci fosse un’abile macchinazione dissimulatoria dei Democratici, lo schema reggerebbe ma invertito. Ovvero, stimolare la rabbia e la paura della classe media frustrata americana, paradossalmente più quella di colore e latina “regolare” che quella wasp, convincerla che con una vittoria Democratica il Paese si trasformerebbe in una paradiso dei clandestini e, possibilmente, in questo modo vincere il 6 novembre. Altrettanto semplice e banale, ma, anche in questo caso, di sicuro effetto su menti che rispondono ormai solo a stimolazione pavloviane di pancia. Serve una nuova dose di paura e rabbia, altrimenti – se prevale la lucidità – è la fine. E sapete perché? Ce lo mostrano questi tre grafici, la base di ogni ragionamento, anche in prospettiva del voto di mid-term di martedì prossimo.

Il primo ci mostra come storicamente l’indice Standard&Poor’s performi meglio quando Senato e Camera hanno controllo politico differente, come tutti i sondaggi prospettano accadrà da mercoledì negli Usa: questo, a prescindere da quale partito occupi la Presidenza. Cosa significa? Che il mercato o presunto tale, ha bisogno di caos politico per poter sfruttare al meglio quella che possiamo chiamare eufemisticamente moral suasion, ma che, in realtà, altro non è che un ricattatorio do ut des spacciato sotto l’esotica facciata dell’attività (lecita) di lobbying. Il secondo grafico è ancora più esplicito: la Borsa americana va meglio quando il tasso di disoccupazione è più alto. Insomma, un Paese instabile e reso nervoso dal fronte occupazionale – e quindi reddituale e di potere d’acquisto – fa bene ai titoli azionari, per il semplice fatto che beneficeranno degli strumenti di stimolo che il Governo del caso – o, nei casi più sistemici, la Banca centrale – metterà in campo per supportare l’economia, sia sul breve che sul medio che sul lungo termine. Altro che mercati che riflettono lo stato di salute dell’economia: balle, i mercati azionari – quelli Usa sicuramente – sono la cartina di tornasole dell’esatto opposto, quando i rally entrano in fasi parossistiche come quella cui abbiamo assistito fino a cinque settimane fa. Vanno bene perché campano di aspettative legate proprio alla conoscenza del segreto, dello schema Ponzi che li sottende: insomma, capitalizzano sul breve della narrativa espandendo a dismisura i multipli di utile per azione e le stime, sapendo che poi qualcuno interverrà per fare in modo che il film trasmesso all’opinione pubblica non venga traumaticamente interrotto da quell’enorme e spaventoso spot pubblicitario chiamato realtà.

Il terzo grafico, è la riprova. Ci mostra il risultato di uno dei sondaggi contenuti nel report mensile di Bank of America-Merrill Lynch presso 200 primari gestori di fondi e pubblicato la scorsa settimana: a vostro modo di vedere, se l’economia Usa sottostante il rally azionario fosse davvero così sana, perché la banca d’affari si sarebbe sentita in dovere di chiedere a quale livello dell’indice Standard&Poor’s 500 ritengono che la Fed dovrà intervenire, bloccando il processo di rialzo dei tassi (il prossimo dei quali è atteso già per dicembre)? Solo porre questa domanda a livello ipotetico un mese e mezzo fa avrebbe fatto gridare alla follia o allo scandalo, un oltraggio all’economia del boom e del benessere generalizzato: bene, guardate le risposte. Facendo una media, il livello che salta fuori è 2.390 punti, raggiunti i quali a detta degli interpellati (investitori professionisti), la Banca centrale Usa dovrà fare come Portobello e dire “stop”. Di fatto, aprendo le porte a nuovo stimolo, visto il reverse a livello simbolico che questo atto rappresenterebbe dopo trimestri di falsa narrativa sul ciclo economico e con il Congresso con ogni probabilità spaccato a metà. Sapete a quanto siamo da quel livello, stando alle valutazioni attuali? Circa il 12%. Insomma, ancora un calo di circa il 12% e a detta di chi opera sui mercati, la situazione sarà tale da imporre a Jerome Powell ciò che Donald Trump gli chiede da questa estate, prima del vertice di Jackson Hole: smettere di normalizzare il costo del denaro, questo nonostante il dato dell’inflazione che – formalmente e ufficialmente – richiederebbe a livello accademico già oggi tassi più alti, altro che “livello neutrale”.

E per quanto il 12% di calo possa sembrare molto, ricordatevi che nelle 5 ultime settimane a livello globale i mercati hanno bruciato capitalizzazione per oltre 9 triliardi di dollari, 8,2 dei quali in equities. Ovvero, mercati azionari. Sapevate queste cose, cari amici? Se la risposta è “no”, vuol dire che lorsignori stanno facendo un lavoro egregio. La sciarada prosegua.