Nelle audizioni sulla manovra di bilancio sono arrivati diversi segnali di allarme da Istat, Corte dei conti e Ufficio parlamentare di bilancio. Il deficit “si posizionerebbe nel 2019 al 2,6% del Pil” ha detto il presidente dell’Upb, Giuseppe Pisauro, mentre secondo l’Istat, per poter centrare la crescita dell’1,2% nel 2018, come prevista dal Governo nella Nota d’aggiornamento al Def, “sarebbe necessaria una variazione congiunturale del Pil pari a +0,4% nel quarto trimestre dell’anno in corso” e “un mutato scenario economico potrebbe influire sui saldi di finanza pubblica, in modo marginale per il 2018, ma in misura più tangibile per gli anni successivi”. Un quadro preoccupante che deve indurre il governo a rivedere le stime della manovra prima di inviare la sua risposta a Bruxelles sui rilievi avanzati dalla Commissione? “La situazione è certamente preoccupante – risponde Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison -. L’Istat ha fatto un semplicissimo calcolo: per poter avere un incremento del Pil annuale pari all’1,2% è necessario che il quarto trimestre faccia uno sprint dello 0,4%, altrimenti non arriverà mai a quel livello”.
Tecnicamente parlando, l’Italia avrebbe quindi bisogno di un miracolo…
Sì, ma il timore diffuso è che possa esserci anche il rischio di una decelerazione, perché un conto è quello che deve fare il Pil e un conto è quello che farà il Pil. Lo scenario internazionale è in rallentamento, ma noi stiamo rallentando più di tutti. La nostra decelerazione si sta addirittura trasformando in una stagnazione col rischio che l’ultimo trimestre possa addirittura essere negativo. Io spero che non succeda, perché il tessuto industriale italiano è ancora vivace, ma la frenata dell’export, un diffuso sentimento di preoccupazione che sta rallentando gli investimenti e il fatto che i consumatori siano anche loro guardinghi, cioè pensino a risparmiare di più in vista di qualche scenario peggiore, non induce all’ottimismo.
Gli annunci del governo, però, parlano di vantaggi a favore della popolazione grazie a reddito di cittadinanza, flat tax e quota 100.
Il fatto è che non è ancora chiaro come si declineranno le misure annunciate e gli italiani vogliono capire cosa si realizzerà veramente da reddito di cittadinanza e quota 100 per le pensioni prima di tornare a spendere.
Intanto anche la produzione industriale è in frenata.
C’è un problema che riguarda il Pil del terzo trimestre, che ha avuto una dinamica piatta. Ora apprendiamo che la produzione industriale è andata indietro, quindi bisognerà vedere se le seconde stime del Pil, in uscita nei prossimi giorni, confermeranno la frenata o addirittura la accentueranno. Insomma, per capire come andrà il quarto trimestre dobbiamo attendere le stime definitive. Speriamo che si possa almeno confermare lo zero, perché se si andasse sotto, sarebbero problemi seri.
Sarebbe un viatico per un 2019 molto negativo?
Rischiamo di entrare nell’anno nuovo con una crescita praticamente inesistente dal punto di vista della dinamica trimestrale e tutta la crescita del 2019 andrebbe costruita sui trimestri dell’anno prossimo.
Ma il governo dice: nel 2019 partiranno tutte le nostre misure. Avranno effetti positivi?
Intanto diciamo che nel primo trimestre non partirà quasi niente. Quindi rischiamo di avere anche un primo trimestre 2019 molto debole.
Il governo, in carica da qualche mese, dal punto di vista della politica economica finora ha varato solo il decreto dignità, che non sembra tuttavia dare risultati apprezzabili. Credere a un colpo di reni finale del Pil è un atto di fede?
Finora la ripresa si basava sostanzialmente su elementi di continuità, a partire dal fatto che l’economia continuasse a crescere, dando sostegno ulteriore ai consumi. Aver frenato con norme rigide il mercato del lavoro flessibile, visto che i settori che han tirato di più l’occupazione sono stati quelli caratterizzati da forti componenti di stagionalità, come turismo, alberghi, pubblici esercizi e commercio, non è stata un’idea brillante. Il Pil di quest’anno ha beneficiato, nella prima parte dell’anno, dell’andamento ancora molto forte degli investimenti in macchinari, Ict e mezzi di trasporto, dove l’Italia avrà nel 2018 uno dei tassi di crescita più alti in tutta la Ue.
E ora?
L’anno prossimo si sarebbe dovuto dare un grosso contributo alla formazione per aiutare i dipendenti a utilizzare i nuovi macchinari e i robot acquistati. Ma anche sotto questo profilo vedo una nebbia molto fitta sulla formazione 4.0 o sul credito d’imposta per la ricerca. Il Pil è andato avanti d’inerzia nel primo semestre e nel terzo, seppure rallentando, ha usufruito ancora dei benefici legati alla crescita degli investimenti in equipment, ma ormai le misure di stimolo si stanno esaurendo.
Il reddito di cittadinanza, secondo l’Istat, potrebbe dare un contributo al Pil dello 0,2-0,3%. Ma i tempi di avvio di questa riforma potrebbero incidere sull’efficacia della misura, alleggerendo però i costi. Non è un po’ come un cane che si morde la coda?
Non è solo un problema di tempi, ma anche di qualità della spesa pubblica che si va a sostenere. Quando si interviene con misure che hanno più carattere di sussidio che di frustata vera e propria all’economia, come possono essere gli investimenti, il moltiplicatore è molto basso. A destare preoccupazione, poi, è il fatto che si continua a ripetere che ci sarà molta attenzione per gli investimenti, ma la cifra stanziata sui tre anni è davvero molto piccola. Non è che si possa far partire una grande domanda o un grande moltiplicatore solo raggruppando le più grandi imprese pubbliche italiane e chiedendo di fare più investimenti e più assunzioni. È come se oggi l’economia rimanesse sospesa senza rete. Se fosse un’economia completamente risanata, potrebbe anche saltare da un trapezio all’altro senza problemi.
Invece?
L’Italia non ha ancora recuperato tutta la parte di Pil e di occupazione persi dal 2008 in poi. Eravamo in una fase di convalescenza molto buona, ma ora rischiamo di prendere un raffreddore perché non abbiamo messo la sciarpa.
Che cosa la preoccupa in particolare?
Sono preoccupato per la discontinuità. Praticamente abbiamo perso un anno, e molto probabilmente perderemo altri sei mesi, prima che possano partire delle misure di sostegno all’economia. Il tutto avendo di fatto scassato la linea dei tassi d’interessi, che abbiamo fatto saltare come un tappo di champagne, provocando con l’aumento dello spread ricadute su mutui, prestiti e conti pubblici. E lo spread finora si è mosso, non su azioni concrete, ma sulle intenzioni. Insomma, siamo in stand bye da troppo tempo, mentre questo era il momento di continuare la cura per non lasciar cadere i miglioramenti conseguiti durante il periodo di convalescenza.
Lo scenario di rallentamento dell’economia avrà ovviamente un impatto anche sui saldi di finanza pubblica. Secondo lei, a questo punto, il governo dovrebbe rivedere le sue stime per il 2019?
Questo governo ha fatto un errore clamoroso: mettersi contro la Commissione Ue, esasperando il fatto che fosse in uscita e che dal maggio 2019 probabilmente ci sarà una Commissione completamente diversa. E’ stato un esercizio inutile e dannoso.
Perché?
Si sarebbe potuto negoziare un deficit che permettesse comunque qualche spazio di manovra. Diciamo che un 2% avremmo potuto anche portarlo a casa. Bastava andare a Bruxelles con programmi di riforma, spiegando la situazione con una certa moderazione. Oltre tutto abbiamo scelto la linea dello scontro nel momento sbagliato: abbiamo lanciato il guanto di sfida proprio mentre ci stava franando la terra sotto i piedi, perché la crescita sta venendo meno. Ancor prima che la Commissione Ue saranno i mercati ad accorgersi di questi elementi di fragilità e a intervenire ancora sullo spread. Siamo a petto nudo davanti a tutti, che non solo vedono come non ci sia la crescita, ma neppure gli elementi di stimolo sufficienti per compiere un miracolo, anche solo nella seconda parte del 2019.
Secondo lei abbiamo sbagliato nel credere che facendo saltare il tavolo avremmo trovato tassi di crescita elevati?
Il Pil non cresce solo pregando o come un pio desiderio, il Pil cresce lavorando, sviluppando, facendo ricerca, esportando, investendo. Non basta buttare sul tavolo una manciata di miliardi nella speranza che si traducano attraverso moltiplicatori virtuosi in tassi di crescita mirabolanti. Bisogna invece cercare di comprendere a fondo i veri fattori di sviluppo dell’Italia e anche i suoi limiti, come il declino demografico o le arretratezze del Mezzogiorno, a cui non basteranno certo i miliardi del reddito di cittadinanza per compiere un salto in avanti.
Ma la Ue non ha proprio niente da rimproverarsi?
La Commissione e l’Europa hanno da rimproversi una lunga fila di cose, sia chiaro. Ma, innanzitutto, dovremmo rimproverare noi stessi, perché non siamo stati capaci di spiegare i nostri conti pubblici e i nostri punti di forza.
Quali, per esempio?
Se abbiamo un’elevata ricchezza finanziaria, questo è un elemento che garantisce stabilità anche ai conti pubblici: come dicono gli ultimi dati della Banca d’Italia, investiti in titoli pubblici, direttamente da famiglie o indirettamente attraverso fondi e banche, ci sono mille miliardi. Avere la ricchezza vuol dire sostenere il debito pubblico. E questa cosa non l’abbiamo mai spiegata bene.
Ci vorrebbe una patrimoniale, come suggeriscono dalla Germania?
No, è impossibile attingere a questo tesoretto.
Perché?
Mille miliardi sono investiti in azioni, ma quelli riconducibili a società quotate sono solo 50 miliardi, gli altri 950 sono azioni di imprese del made in Italy e imprese famigliari, dove le famiglie possiedono le azioni della proprie imprese. Vogliamo portare via quelle azioni e trasformarle in titoli di Stato? Una patrimoniale in Italia oggi neanche un Dottor Stranamore potrebbe immaginare di applicarla. Oppure che facciamo, si interviene in una notte sui conti correnti? Ma questa volta non basterebbe certo la misera cifra che decise a suo tempo il governo Amato. Senza dimenticare che i conti correnti non sono dormienti. I 1.400 miliardi in conti correnti, depositi bancari e postali non è che si possono ritirare tutti, perché le banche li hanno trasformati in prestiti ad altre famiglie e ad altre imprese; non è denaro immobilizzato, che ammuffisce, è stato immesso nel sistema e con quel denaro banche e assicurazioni hanno fatto anche acquisti di titoli di Stato. Il patrimonio non si può toccare, perché tutto si lega.
Oltre alla ricchezza finanziaria, che cosa non abbiamo spiegato bene alla Ue?
La posizione finanziaria netta dell’Italia sull’estero, che è eccezionale: al secondo trimestre 2018 abbiamo solo il 3% di debito totale sull’estero. Facendo la somma tra debito pubblico verso l’estero, debito privato verso l’estero e investimenti diretti esteri in entrata e in uscita abbiamo uno stock di debito verso l’estero che è solo il 3% del Pil. Nel Regno Unito è al 12%, in Francia al 19% e in Spagna all’80%. Siamo una specie di piccola Germania e l’anno prossimo rischiamo di avere una posizione finanziaria netta positiva, anche se ben lontani dal 50% abbondante di Germania e Olanda…
Torniamo alla Ue. Quali colpe ha?
Guardano solo alle solite cose: debito/Pil, deficit/Pil e i tempi del fiscal compact. È una Commissione che non capisce alcune economie, tra cui la nostra. Fare un errore di valutazione su Malta, non ha conseguenze, ma quando a Bruxelles pensano e danno l’impressione che l’Italia stia per saltare solo per qualche decimale, fanno un errore di valutazione e di comunicazione che si riflette anche sull’euro, perché si va a indebolire tutta l’Eurozona. Noi non siamo Malta, siamo la terza economia dell’Europa.
Quindi abbiamo il diritto di fare un po’ la voce grossa, o no?
È inutile fare la voce grossa in uno dei momenti di maggiore debolezza economica della nostra storia. Adesso siamo sulla buona strada per andare incontro, soprattutto se si manifesterà il rallentamento, a una dura punizione dei mercati, il che ci esporrebbe agli attacchi della speculazione. Agli inizi del 2018 l’Italia era solida, e non capisco come siano riusciti a trasformarla, dal punto di vista dell’immagine, in quella del 2011. Un disastro di cui non avevamo affatto bisogno.
(Marco Biscella)