Cosa significa nel 2018 parlare di Meridione? Significa affrontare il problema di un’aerea depressa del Paese secondo i soliti canoni della questione meridionale o significa affrontare il problema dello sviluppo italiano? Ancora di più oggi, poiché siamo in un ambito europeo, il Sud non può più essere considerato una zona periferica, ma il centro della storica grande via del Mediterraneo. Questa è la grande occasione che l’Europa deve saper cogliere, anche se appare chiaro che questa prospettiva viene attualmente sottovalutata.
Ne abbiamo parlato con Adriano Giannola, presidente della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) e docente di economia nell’Università Federico II di Napoli. Pochi giorni fa la Svimez ha presentato il suo Rapporto annuale sul 2017. Ieri mattina il professor Giannola è intervenuto alla presentazione del Rapporto Sussidiarietà e… giovani al Sud che si è tenuta a Milano.
Tutti gli studi sul Meridione sembrano confermare lo scenario che da cent’anni a questa parte viene descritto: siamo di fronte a due paesi. Il divario tra il Pil pro-capite del Nord-Ovest e quello del Mezzogiorno, secondo i centri di statistica, sarebbe di 30 punti. Conferma che la situazione è ancora questa?
Sì, è ancora così. Il problema è che ci si dimentica la storia. Siamo tornati a questo punto ma non siamo sempre rimasti lì. Lavorando sui dati, si vede che dal 1950 con la riforma agraria, la Cassa del Mezzogiorno, le grandi lotte contadine e la relativa nascita del sindacato, il Sud aveva recuperato 12 punti di Pil pro-capite. Il Pil è cresciuto per il miracolo economico, ma ci si dimentica che il Sud è stato fondamentale per il boom italiano.
In che senso?
I sei milioni di persone venute a lavorare al Nord e contemporaneamente le politiche che avevano creato – checché se ne dica – sono la base industriale sia per il Nord che per il Sud. Questo vale per settori come ad esempio l’acciaio e la chimica di base. Era un discorso nazionale, con una sua strategia molto lucida, molto precisa. E’ stato un processo lungo, complicato, ma effettivo. Sono cominciate a nascere diverse imprese e nella fase di massima espansione dell’economia italiana il Sud aveva recuperato almeno 11 punti. E’ andata avanti in questo modo fino al ’74 quando c’è stato il primo shock petrolifero.
E poi che cos’è successo?
Si è deciso che il Sud dovesse fare da solo e che era inutile continuare a praticare politiche di industrializzazione programmata. Occorreva lasciare campo a quella che veniva allora chiamata l’auto-propulsività del sistema. E’ stata una follia, perché le imprese del Sud non potevano competere con quelle del Nord-Est che in quella fase stavano formando i distretti industriali. L’idea, anche di grandi economisti come Giacomo Becattini, era che il Sud potesse seguire le orme del Nord. In realtà, strutturalmente e culturalmente, il Meridione non era pronto.
E’ un bilancio amaro di cui paghiamo le conseguenze anche adesso.
E’ stato fatto un grande errore, pensando che le piccole imprese che stavano nascendo si sarebbero organizzate da sole. Al posto di fare politiche di sostegno a queste imprese si sono fatte politiche di sostegno alla domanda che si sono trasformate in assistenzialismo. Dal 1975 circa si è di fatto smantellata la politica di industrializzazione. Doveva essere modificata ma accompagnandola, non bloccandola completamente.
Quali sono state le mancanze più gravi da parte dello Stato?
C’è stato un periodo in cui si facevano censimenti delle imprese del Sud ogni tre mesi, se ne sapeva di più di quelle del Nord. Questo dimostrava una grande attenzione e un grande scrupolo. Cominciavano già a vedersi gli effetti indotti della grande industria. Cioè l’attrattività delle piccole e medie imprese del Sud da parte della grande industria del Nord. Si era avviato un processo di integrazione tra industrie del Sud e del Centro-Nord. Proprio ciò che dovrebbe essere riattivato in questo momento. Pensare ai problemi del Sud come fossero staccati dalla realtà dell’intero Paese è pura follia.
Lo sviluppo italiano è di fatto lo sviluppo del Mezzogiorno.
Il ragionamento è complesso, perché il Nord vede con favore la crescita del potere d’acquisto al Sud. Gli fa comodo l’assistenzialismo perché se il Sud non produce rivolge la domanda al Nord. Ora, con la crisi del 2007, questo meccanismo si è bloccato e il Nord ha così perso 8 punti di Pil. Alla fine si potrà anche dire che Milano è una città europea, ma dove può andare da sola? Con la Baviera, forse.
Quindi sta dicendo che l’evoluto Nord non si rende conto che trascurando il Sud si sta giocando anche il suo futuro?
La realtà è che l’Italia sta diventando un Paese marginale in Europa, con tutto il rischio che questo implica. Nonostante il Made in Italy, il fatto di essere la seconda potenza manifatturiera in Europa, contiamo poco. La via d’uscita è solo quella di vivere la dimensione euro-mediterranea. Il Sud non può essere considerato una periferia, ma è il centro del Mediterraneo.
In che modo può accadere?
Va potenziata la struttura dei porti, delle infrastrutture, quella logistica. Lo stesso Nord Europa sta godendo di vantaggi che il commercio del Mediterraneo sta portando. E noi siamo il terminale del Sud Europa per i traffici commerciali. Le zone economiche speciali al Sud possono essere 12. La strategia sul Sud non può essere quella del rafforzamento dell’autonomia delle Regioni del Nord, come quello sottoscritto con il Governo da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. E’ una follia. Non risolve alcun problema e anzi ne crea di nuovi.
Perché è una follia? La riforma del 2001 del titolo V della Costituzione lasciava una sovrapposizione di competenze tra Stato e Regioni.
Il problema non è il fatto che quelle Regioni prendano in carica le funzioni concorrenti e i soldi che competono, ma il fatto che si voglia finanziare le funzioni aggiuntive in modo proporzionato alla capacità fiscale della Regione che lo Stato oggi utilizza per finalità perequative. Non è federalismo, ma è come se fossimo all’epoca dei Confederati negli Stati Uniti, come ai tempi dello loro guerra civile. E’ vero che è stata fatta la legge sui porti, ma non vedo in questa classe politica una visione di prospettiva. Parlano di riforme, di mettere a punto dei meccanismi, ma senza degli obiettivi e senza una visione. Anche perché manca loro il coraggio.
(Silvia Becciu, Gianluigi Da Rold)