Per anni, gli anni d’oro del Qe globale, il mantra dei mercati – se così vogliamo continuare a chiamarli, almeno evitiamo di affibbiare loro anche l’aggettivo di “liberi” – è stato bad news is good news. Ovvero, ogni dato macro che mancasse le previsioni, ogni flessione degli indicatori, ogni sussulto dei rendimenti era motivo di festeggiamento: la festa dei tassi a zero e del denaro a pioggia sarebbe continuata. Nessuno, politicamente e mediaticamente, dopo lo shock del 2008 poteva infatti permettersi il lusso di far deragliare anche soltanto la percezione della cosiddetta ripresa globale. La narrativa della fenice che risorgeva dalle ceneri di Lehman Brothers era troppo ghiotta per farsela sfuggire, la gente così ancora scossa e provata da aggrapparsi a ogni barlume di speranza spacciatagli, come un tossicodipendente pende dalle labbra del suo pusher. Un quadro poco edificante, ma, purtroppo, risaputo e colpevolmente accettato da tutti. Stampa in testa, giova sottolinearlo, perché di questi tempi anche un po’ di autocritica non guasterebbe.



Ora, però, tocca fare i conti con quella narrativa di cieli blu e unicorni, tocca mettere mano alla realtà e cercare di plasmarla un’altra volta: peccato che le facoltà da demiurgo del combinato mercati-media siano molto deteriorate e la kora ormai sembri plastilina risecchita, il Das con cui giocavamo da bambini divenuto un monoblocco non più manipolabile. Platone sarebbe molto dispiaciuto. Ecco in quale condizione siamo stati negli ultimi dodici mesi, durante i quali abbiamo assistito a due cambiamenti epocali: l’inizio di una politica di contrazione monetaria da parte della Fed e della Pboc cinese, ognuna con i suoi metodi e le sue dinamiche e l’annuncio della fine del programma espansivo della Bce, il quale ha dato vita a un riprezzamento molto contenuto degli assets rispetto ai valori da bolla generali. Comunque sia, un cambio quasi totale di narrativa. Almeno sulla carta. Ora siamo entrati in un territorio ulteriormente nuovo e, questa volta, davvero insondato: per quanto assolutamente anonima a livello mediatico e di reazione pavloviana dei mercati, la scelta della Fed compiuta la scorsa settimana rappresenta un vero spartiacque. Per tre ragioni.



Primo, è avvenuta in un clima di aperta – e quasi senza precedenti – polemica fra la stessa Banca centrale e la Casa Bianca sulla politica monetaria, impostazione che Trump porta avanti dall’estate, ma che, giocoforza, ora diverrà sempre più stringente, soprattutto in attesa del G20 di Buenos Aires di fine mese, dove si decideranno molto probabilmente le sorti del conflitto commerciale con la Cina. Secondo, è avvenuta a brevissima distanza, pressoché in contemporanea, con quella che nei fatti è stata la vittoria dello stesso Trump alle elezioni di mid-term, un vero e proprio referendum sulla sua persona e sui primi due anni di amministrazione. Ora, per quanto si vogliano sminuire la portata del risultato e le sue conseguenze pratiche, l’inquilino della Casa Bianca è più forte di prima: ha il Senato in pugno, liberato dalle “scorie” del vecchio repubblicanesimo stile Bush o McCain e una Camera sì a controllo democratico, ma mai come oggi ricattabile, non fosse altro per l’esercito di completi neofiti della politica e scappati di casa molto politically correct che il partito di Obama e Clinton ha dovuto mettere in campo per irretire l’elettorato leftist. Terzo, quanto deciso la scorsa settimana appare di fatto uno stress test in piena regola, poiché pur lasciando il costo del denaro fermo nell’attuale range 2-2,25%, la Fed ha fatto chiaramente capire che a dicembre quel livello salirà almeno di un quarto di punto ulteriore. Replica degli scossoni estivi sui mercati emergenti, stracarichi di debito estero denominato in dollari che diviene ogni giorno più pesante? Quasi da escludere, con i capitoli più spinosi conclusi tutti in favore della scelte e dei desiderata Usa – Turchia, Argentina e Brasile -, ora la disputa si sposta tutta a livello interno, quello che maggiormente e interessa – e preoccupa – Trump, il quale, essendo conscio di aver finora fatto unicamente gli interessi di Wall Street e del comparto bellico industriale, non a caso prima del voto di mid-term aveva annunciato un nuovo shock fiscale, questa volta centrato e focalizzato in toto sulla classe media.



Di fatto, un’ammissione di colpa. E un disvelamento del suo vero mandante, finora rimasto occulto solo per la stupidità o la malafede dei vari “analisti” di turno. E qual è il canarino nella miniera del vero stato di salute dell’economia Usa, come purtroppo ci insegna il recente precedente del 2008? Il mercato immobiliare. E qual è il suo quadro clinico? Gli ultimi dati di Wells Fargo al riguardo sono da mani nei capelli e tutti imputabili a un unico catalizzatore: proprio l’aumento dei tassi da parte della Fed. Il dato riguardo l’accensione di nuovi mutui immobiliari, infatti, ci parla di un crollo letterale dai 67 miliardi di dollari del secondo trimestre di quest’anno ai 57 del terzo trimestre, un -22% su base annua e il livello più basso dalla grande crisi finanziaria. d oggi, il tasso su un mutuo trentennale, il vero benchmark del settore, negli Stati Uniti è al 5,15%, ai massimi addirittura dal 2000. Di più, perché questo va a impattare sull’altra enorme criticità del bluff fiscale di Trump, ovvero il controbilanciamento dello stimolo shock di inizio mandato rispetto all’erosione del potere d’acquisto e all’aumento dell’inflazione reale nel Paese, quasi tre volte tanto il circa 2% di tasso ufficiale su molti beni di largo consumo.

Guardate questo grafico, il quale potrebbe essere titolato “La fine del sogno americano”: stando all’ultimo report di Black Night Mortgage Monitor, oggi negli Usa un mutuo su un’abitazione di medio prezzo porta via il 23,6% del reddito, a livello mensile. Siamo al dato meno favorevole per i proprietari da dieci anni a questa parte, tanto che fra pagamento del capitale e interessi le necessità finanziarie per l’acquisto di una casa hanno conosciuto un aumento di 190 dollari al mese dall’inizio del 2018, un aumento del 18%.

Certo, nonostante la contrazione monetaria della Fed, ai tassi attuali l’abitazione media negli Usa rimane un investimento più abbordabile oggi di quanto non fosse nel benchmark di lungo termine (1995-2003), quando la ratio reddito/pagamento era del 25,1%. C’è però un “però” ed è discriminante rispetto a cosa attendersi dalla Fed sul medio termine: con un ulteriore aumento dello 0,50% dei tassi di interesse, quella ratio cambierebbe e porterebbe la media attuale a vedere il mercato immobiliare come meno abbordabile oggi che nella norma di benchmark del lungo termine. Psicologicamente e nei fatti, un disastro totale. E attenzione, perché se alle parole della Fed seguiranno i fatti, metà di quell’aumento entrerà in vigore già fra meno di un mese, il che significa che il primo ritocco minimo del 2019, presumibilmente a marzo, vedrà raggiunta l’area psicologica non neutralità dei tassi per il comparto. Il tutto, alla vigilia della sparizione pressoché totale delle politiche di stimolo trumpiane e degli ultimi ricaschi a livello di sussidi e incentivi di quelle varate da Obama nell’ultima fase, quella pre-elettorale e di traino per la Clinton, della sua amministrazione. Un qualcosa che Donald Trump, semplicemente, non può permettersi.

Perché al netto del cane e della squadra di football, un qualcosa da non toccare all’americano medio è la casa di proprietà. Certo, la grande sbornia di Wall Street vede i cittadini impegnare il loro patrimonio più in titoli azionari che in immobili, ma tutti sanno che alla prossima tosata di massa del parco buoi, stile bagno di sangue di ottobre, la gente tornerà al mattone, il bene rifugio reale dell’America. E strutturalmente connesso a Wall Street e alle sue fortune, oltre che a quella dell’economia reale, pianeta sconosciuto per chi ragiona solo di indici azionari, dividendi e buybacks. Questo grafico è tanto illuminante, quanto spaventoso in prospettiva per la Casa Bianca. Se infatti esiste un proxy affidabile dell’attività manifatturiera statunitense, questo è il lumber, ovvero proprio il legname da costruzione, a sua volta strettamente correlato alle fortune del mercato immobiliare. Bene, diciamo che per quanto la natura di quelle fortune sia ontologicamente alterna, oggi il dato del prezzo del lumber ci dice che se il decouple in corso rispetto all’indice manifatturiero Ism dovesse ricomporsi verso il basso, quest’ultimo vedrebbe l’attività di quel comparto schiantarsi letteralmente al suolo. E con essa, qualche triliardo di controvalore in titoli azionari e obbligazionari legati al settore in causa, oltre che al sistema bancario a esso esposto, fra prestiti e mutui. Il tutto, perché la Fed deve difendere la narrativa dell’economia che scoppia di salute, continuando ad alzare i tassi e mettendo a dieta il suo bilancio dopo anni di bagordi a colpi di acquisti miliardari.

Qual è il problema, però? Se già oggi il combinato di deficit, aumento dei tassi e livelli salariali tutt’altro che da boom economico ha visto l’inflazione reale andare ben al di là del livello prefissato del 2% ed entro il primo semestre 2019 lo stimolo fiscale di Trump vedrà svanire il suo effetto di off-set su quell’erosione del potere d’acquisto, come farà però la Fed a smettere di alzare i tassi? O, di converso, come farà Trump a lanciare un altro stimolo fiscale, ancora tutto a deficit, di portata ben maggiore rispetto a quello già monstre di inizio amministrazione, visto che i suoi effetti dovranno – giocoforza – questa volta irradiarsi anche alla classe media e non solo a Wall Street?

È cambiato tutto, ve l’ho detto. Prima fermata in vista della verità, il 30 novembre al G20 di Buenos Aires.