Con 27 miliardi di debiti e circa 8,5 di ebitda (margine operativo prima degli interessi e degli ammortamenti) oggi Telecom Italia (pardon: Tim) è un gigante malato. Ha un debito pari a più del triplo (3,1) della propria capacità di generare reddito: troppo, per i gusti dei mercati. Se però vendesse la rete – il cui utilizzo genera oggi soltanto 2 di quegli 8,5 miliardi di ebitda – per un prezzo di 10 miliardi di euro allo Stato, il rapporto tra il debito e la redditività si ridurrebbe a circa 2,6 volte. In base gli standard internazionali utilizzati dagli analisti finanziari e dai grandi fondi d’investimento per allocare i propri soldi, questa riduzione del rapporto debiti/redditività trasferirebbe Telecom dall’attuale galassia grigia dei titoli indesiderati, che ha schiacciato la sua capitalizzazione sotto gli 11 miliardi, nell’area delle aziende di servizio, patrimonialmente non brillante ma neanche troppo zavorrata, e con 20 mila dipendenti in meno.



Per quale motivo l’amministratore delegato Amos Genish si sia schierato contro lo scorporo della rete e il suo successivo accorpamento con quella di nuova generazione, a banda ultralarga, che Open Fiber sta costruendo in tutta Italia, è un mistero… chiarissimo. Genish, che ieri è stato privato delle deleghe dal consiglio d’amministrazione di Telecom insediato con una risicata maggioranza assembleare dal fondo attivista Elliott, si era schierato contro contando così di recuperare l’antico consenso dell’azionista di maggioranza relativa Vivendi. E l’aveva fatto in virtù di un vecchio riflesso pavloviano dei capi di Telecom – oggi Genish, ma ieri Franco Bernabè e prima di lui il detronizzato (illegittimamente) Marco Tronchetti Provera – a tutelare quest’integrazione verticale tra proprietà della rete ed esercizio dei servizi telefonici che Tim ha ereditato dalla sua antica natura pubblica, ma che in realtà serve a conservare quel minimo di vantaggio competitivo sui concorrenti che non hanno rete di accesso e sono da questo penalizzati sul mercato dovendo usare a pagamento quella altrui. Ma lo sono – penalizzati, s’intende – non per il prezzo che corrispondono a Telecom per usarne la rete, prezzo vigilato dallo Stato e più che congruo se confrontato ai soldi risparmiati per la gestione e la manutenzione della rete stessa: sono penalizzati perché l’ex operatore dominante, grazie alla proprietà della rete, ha sempre forzato minimamente ma subdolamente le regole della concorrenza… a proprio vantaggio. Quindi, togliere la rete a Telecom è considerato da sempre – da chi ha veramente a cuore la concorrenza telefonica in Italia – un passo indispensabile per garantirla!



Il dibattito sullo scorporo della rete va infatti avanti dal 2001, da quando l’azienda venne comprata da Tronchetti, che la rilevò dalla cordata dei cosiddetti capitani coraggiosi, guidata da Roberto Colaninno e Chicco Gnutti, che avevano fatto l’Opa del ’99, caricando sulla stessa Telecom la massa di debiti che ancora la opprime. Al Governo Letta arrivò una proposta formale di H3G che voleva comprare la sola Telecom “esercizio”, alla condizione che prima scorporasse la rete lasciandola in altre mani. All’epoca, il socio forte di Telecom era ancora Telefonica, inutilmente accompagnata da Mediobanca, Generali e Intesa, e Telefonica aveva come unico interesse quello di interdire alla sua controllata italiana tutte le attività d’espansione nei mercati davvero cari agli spagnoli, cioè quelli sudamericani.



Il Governo Letta si impantanò nelle esitazioni, come già prima di esso aveva fatto il Governo Monti, e l’opzione sfumò. Anche durante i mille giorni renziani molti operatori pensarono a un’aggregazione con una Telecom alleggerita dalla rete. Invano. Stavolta il governo giallo-verde sembra deciso: il che non vuole assolutamente dire che abbia idea di come fare davvero per conseguire l’obiettivo stentoreamente annunciato dal ministro dello Sviluppo economico (e vicepremier) Luigi Di Maio.

L’unica variante è che oggi nel consiglio di Telecom prevalgono gli uomini insediati da Elliott, che sono a favore dello scorporo. Ma la beffa della storia fa sì che invece nel capitale di Telecom Elliott, dopo aver vinto l’ultima assemblea e insediato i suoi uomini, abbia ridotto la sua quota ben al di sotto di quella di Vivendi, che si trova dunque nella scomoda posizione di chi ha più azioni di tutti e conta zero. Per cui se si tornasse alla conta assembleare, Vivendi potrebbe nuovamente prevalere e nuovamente bloccare lo scorporo.

Un garbuglio da cui difficilmente si uscirà, a meno di un atto politico d’imperio – che qualunque Stato serio farebbe, a cominciare dalla Francia, e quindi è improbabile che lo faccia l’Italia – per dare un indirizzo di politica economica al settore-chiave per lo sviluppo del Paese, quello digitale. Una rete in banda ultralarga non può che essere unica, ed è sano che appartenga allo Stato per la rilevanza strategica cruciale che l’infrastruttura riveste, quanto e più delle reti elettrica, del gas e delle stesse autostrade, tutte o completamente o parzialmente a controllo pubblico, e semmai assegnate in concessione ai privati, ma non in proprietà.

Resta una domanda: sarebbe capace Open Fiber di comprare tutto e gestire bene? Sarebbero forti e determinati abbastanza i suoi due soci, Cassa depositi e prestiti ed Enel, a sostenerla nell’acquisizione? Domande retoriche. L’unica domanda vera è se la volontà politica di Di Maio resisterà al lobbing internazionale e alle mille fibrillazioni da fragilità politica che il Governo nazionale più spaccato di sempre vive quotidianamente anche su temi ancor più delicati di questo.