Tim, Carige, i giornali. Quanti pezzi di Azienda-Italia vengono giocati come carte coperte – o come “tre carte” – sul tavolo politico-finanziario dell’Italia di fine 2018: in nome di polemiche spesso paradossali sul crinale insidioso del sovranismo.
Fa specie leggere editoriali pensosi e corrucciati sulle ultime scosse dentro e attorno all’ormai ex campione nazionale delle tlc. Certo che la Stet era una potenza internazionale, un laboratorio di innovazione tecnologica di prim’ordine. Certo che “la Francia può tuttora contare su Orange e la Germania su Deutsche Telekom, l’Italia invece eccetera eccetera”. Certo che “fra gli azionisti magari qualcuno ci guadagnerà” mentre “sono a rischio 30mila posti di lavoro”. Ma dov’erano politici, economisti, giornalisti, industriali e sindacati italiani quando – vent’anni fa, non cento – il governo Prodi-Ciampi-Draghi decise di privatizzare Telecom Italia con Opv integrale sul mercato? Tutti ad applaudire “la cosa giusta”: spesso gli stessi che oggi riscoprono “l’interesse nazionale”, anche se con l’imbarazzo di doversi distinguere dal governo giallo-verde e di dover – talora – nascondere interessi tutt’altro che collettivi nell’invocare prosaici aiuti pubblici.
Dov’erano tutti quando il gruppo fu affidato alla famiglia Agnelli in cambio di un investimento dello 0,6%? O quando Wall Street utilizzò la “razza padana” e il governo D’Alema come rampe di lancio per “la madre di tutte le Opa” (e contemporanea vendita di Omnitel a Vodafone)? Dov’erano durante il regno di Pirelli in Telecom e poi quello di Mediobanca e Intesa Sanpaolo? Quando Prodi-2 prima preparò lo scorporo della rete, poi bloccò tutto per boicottare avvicinamenti insidiosi fra Rcs, Mediaset e Sky? Chi ha lasciato scalare liberamente sul mercato Tim da parte di Vivendi, salvo poi inventarsi “golden power” e altri intralci cripto-sovranisti per proteggere Silvio Berlusconi, candidato partner di un governo-Nazareno?
È così che oggi – fra mille ipocrisie – c’è chi attacca il fondo Elliott come pirata, dimenticando che è stato chiamato da pezzi dell’establishment nazionale (ma non certo dalla Lega di Matteo Salvini) come “cavaliere bianco” contro un raider francese. Non manca neppure chi storce il naso per il ruolo-chiave assunto da Cdp: scordando che il riflesso ri-pubblicizzatorio l’ha attivato il governo Gentiloni “in prorogatio”, non la Cdp “risciacquata” dalle nomine giallo-verdi. Il presidente resta comunque un ex partner Goldman Sachs e il Ceo un ex manager Morgan Stanley: non garantiscono a sufficienza il rispetto del “bon ton” liberista? O il fatto di essere stati scelti (soprattutto) da M5s sconvolge carte e menti?
Perché Carige, nel frattempo, dev’essere salvata ancora – a tutti i costi – a carico del sistema-Italia? Non sono bastati i miliardi pubblici spesi per “risolvere” Etruria, per tenere a galla artificialmente Mps, per seppellire le Popolari venete dentro Atlante e poi in Intesa? Perché indebolire ancora il sistema bancario nazionale, già debole di suo e messo sotto pressione fiscale dalla manovra 2019? Perché tanti anti-sovranisti più o meno ideologici insistono nel caso specifico su un “sovranismo” bancario mostratosi tanto affannato quanto oneroso? Un sovranismo già costellato di errori: prima, durante e dopo i dissesti; ai vertici delle banche, nella vigilanza, nelle cabine di regia della politica creditizia nazionale ed europea. Un sovranismo decollato ben prima che a Palazzo Chigi arrivassero forze politiche oggi accusate senza posa del sovranismo più deleterio. Un sovranismo bancario avallato, anzi voluto, a Francoforte, Bruxelles, Berlino e Parigi.
Tre anni fa per la stessa Carige un grande gestore internazionale di fondi (Apollo) si offrì di ricapitalizzare e stabilizzare il gruppo. Fu respinto con le cattive: perché? Eppure nel 2005 si era saldata un’”unione sacra” – almeno fra media e procure – nell’affermare il primato delle scalate estere sulle grandi banche italiane (AntonVeneta finì all’olandese Abn Amro e Bnl alla francese BnpParibas) e l’inaccettabilità di ogni difesa “italianista” (in concreto quella condotta dall’allora governatore Antonio Fazio). Perché oggi gli stessi opinion/policy maker di allora sembrano ignorare, ad esempio, un’ipotesi di salvataggio Carige con capitali cinesi? Perché allungherebbero ombre indesiderate sul porto? E se invece accelerassero la ricostruzione del Ponte Morandi?
Nel frattempo stamattina su tutti i giornali comparirà il manifesto di una nuova “unione sacra” di matrice nazionale: quella fra gli editori di giornali della Fieg e il sindacato corporativo dei giornalisti Fnsi. Ufficialmente si compatteranno nella difesa dell’articolo 21 della Costituzione, che tutela le libertà di stampa in democrazia. Ma è un principio che nessuno si sogna di abrogare o restringere. Il governo invece vuole abolire i contributi statali all’editoria, o meglio: vuole ripensare i sostegni alla “libertà di stampa”, rimettendo in discussione tutte le forme di finanziamento diretto o indiretto ai singoli editori tradizionali. Tutti privati, tutte società quotate in libera competizione sul mercato. Tutti in crisi di bilancio, tutti in ritardo nel ristrutturarsi sul mercato dell’informazione digitale. Tutti a corto di capitali, che i rispettivi azionisti non hanno investito né si sognano di investire: eppure appartengono tutti o quasi all’aristocrazia finanziaria del Paese. Così il governo sovranista è sotto accusa per non esserlo abbastanza nel sussidiare i media che vorrebbero la rapida fine dell’esperimento politico bollato come sovranista. Non vorrebbero, intanto, cedere il (loro) controllo dei gruppi media “nazionali” e così pretendono che le aziende a partecipazione statale continuino a convogliare la pubblicità sui (loro) media “nazionali”.
E tutto questo quando il 49% di Le Monde è appena stato venduto a un miliardario ceco, Time a un giovane leone della Silicon Valley e Fortune a un tycoon thailandese.