In un contesto internazionale di profonda incertezza, in cui sono tanti i fattori che contribuiscono a vanificare le previsioni sul medio e lungo periodo, anche il dibattito sulle Zes (Zone economiche speciali) risulta condizionato dalle criticità e dai dubbi tipici di una fase di cui risulta difficile definirne la durata e gli esiti. Uno strumento pensato per prefigurare l’apertura di un’area determinata ai mercati attraendo capitali e merci, sembra ora dover ridefinire le sue funzioni all’interno delle complesse reti della globalizzazione.



In una realtà in continuo cambiamento, il Sud del paese, che nella lucida previsione di alcuni amministratori regionali, come l’assessore alle attività produttive della Campania, e del ministro per il Mezzogiorno aveva visto nelle Zes un’opportunità di sviluppo, rischia di perdere tempo nella ricerca di una definizione ulteriore delle funzioni, degli strumenti, dell’identità e delle semplificazioni necessarie, applicando, così, un modello pensato altrove per realtà completamente differenti e in una fase di espansione della globalizzazione.



Non è un caso che gli osservatori più attenti del fenomeno abbiano iniziato a ripensare le Zes come strumenti funzionali ai processi di re-shoring, in cui i capitali sembrano ormai orientati ad indirizzarsi verso i paesi a capitalismo avanzato. Nell’era che Sergio Bologna ha definito “post-portuale”, in cui la trasformazione della logistica finisce per plasmare la supply chain, l’estenuante ricerca di una identità, dalla quale si dovrebbe dedurre la vocazione per i porti e le Zes del Sud, si ridurrebbe ad alimentare la ormai sterminata narrativa sul Mezzogiorno, più impegnata a descriverne la realtà che a provare a concretizzare gli strumenti per cambiarla. Un discorso che sembrerebbe condannare i porti del Mezzogiorno a limitarsi ad accogliere i crescenti flussi di turisti. Converrebbe provare ad avviare una comparazione con le realtà che hanno sperimentato le Zes e che possono fungere da modello per quelle del Sud.



Quando si parla di Zone economiche speciali generalmente ci si riferisce all’esempio cinese e a quelle che si trovano in Polonia. La poca chiarezza nel dibattito intorno alle Zes deriva dal fatto che generalmente si richiamano come esempi, in modo indistinto, realtà molto differenti fra loro, modelli diversi ispirati a filosofie per alcuni versi contrapposte.

Da un lato, l’esperimento delle 14 Zes polacche, cresciuto in relativamente poco tempo, fatto sostanzialmente per attrarre capitali stranieri e che cerca di utilizzare la propria vicinanza alla Germania, centro manifatturiero dell’Europa, e, dall’altro, quello cinese, che nell’arco di quarant’anni ha completamente stravolto il paesaggio di città come Shenzhen, un tempo un paese di pescatori. Le differenze sono tante, ma va sottolineata quella che c’è fra il tentativo di intercettare nell’immediato i flussi finanziari e una governance in grado di pianificare nel medio e nel lungo periodo lo sviluppo di un’intera area, in cui l’apertura ai capitali stranieri è sostanzialmente il prerequisito di una complessa strategia di modernizzazione, di cui le Zes sono parte integrante.

All’interno di un frame in cui le Zes vengono descritte come aree geografiche ove vigono legislazioni diverse da quelle del paese all’interno del quale si trovano, risulta utile non perdere di vista le macroscopiche differenze fra esperimenti radicalmente diversi. Le entusiastiche dichiarazioni di intenti che hanno accompagnato la decisione di istituire le Zes anche nel Mezzogiorno hanno spesso fatto passare in secondo piano la necessità successiva di chiarire quale approccio scegliere per affrontare la questione della loro concreta attuazione. Distinguere fra un modello che punta soprattutto al mercato dei capitali finanziari e uno che si declina per fasi diverse, in cui gli obiettivi da raggiungere sono definiti in partenza, non vuol dire semplicemente riproporre l’opposizione fra un’impostazione liberista e una statalista, quanto il tentativo di definire pragmaticamente gli strumenti più idonei per avviare un cambiamento strutturale delle aree del Mezzogiorno che dovrebbero ospitare le Zes.

La mancanza di un preciso indirizzo ha reso le Zes polacche più vulnerabili alla crisi in atto, evidenziando criticità di difficile soluzione. Se, da un lato, esse si sono mostrate capaci di buone performance, soprattutto nell’Alta Slesia – aumentando significamene occupazione, investimenti, indotto ed esportazioni – dall’altro hanno animato speculazioni nel settore edilizio e problematiche sociali, in particolare per quello che riguarda le condizioni della forza lavoro accorsa anche dalla vicina Ucraina. Ma il rischio più concreto riguarda la possibilità che, in una fase di contrazione della globalizzazione come quella attuale, gli investitori stranieri possano decidere di abbandonare la Polonia per andare altrove, attratti dalla possibilità di rendimenti più remunerativi, lasciando dietro di sé un paesaggio completamente trasformato e ricco di strutture industriali da dismettere.

In questo quadro, le 14 Zes polacche sembrano fungere da retroterra geo-finanziario della vicina Germania e, quindi, sono collocate in un contesto fortemente vulnerabile alla crisi preannunciata.

Naturalmente il caso della Cina non è esente da critiche e preoccupazioni, ma sembra indubbio che, al momento, sembra rappresentare una storia di successo, in cui le Zes poggiano su basi più salde e in grado di rispondere in modo più efficiente alla crisi. Queste capacità vanno ritrovate nel grande pragmatismo con cui le autorità cinesi hanno affrontato la questione e nella strategia di medio e lungo periodo adottata, in cui le esigenze della finanza e quelle dell’economia reale hanno trovato il giusto bilanciamento. Vedere nelle Zes l’occasione per l’apertura ai processi di globalizzazione non ha semplicemente significato subire un processo, quanto piuttosto il tentativo di governare quello che altrove è stato affidato esclusivamente alla logica del libero mercato.

Risulta a riguardo particolarmente interessante l’atteggiamento ambivalente del Wto verso le Zes, talvolta viste come delle enclave di libero scambio all’interno di paesi che, nel complesso, hanno seguito politiche neomercantilistiche. Il caso cinese va inserito in questo contesto. Le Zone economiche speciali si sono rivelate gli strumenti privilegiati della “politica della porta aperta” di Deng Xiaoping, con cui la Cina si aprì ai mercati, non solo per attirare capitali esteri, ma per diventare protagonista su scala globale. Una sfida che puntava alla trasformazione radicale del tessuto economico delle aree interessate, ma che non avrebbe avuto ragione di esistere se non nella prospettiva di un’integrazione regionale – il rapporto con Hong Kong e il Sud-Est asiatico – e dello sviluppo del mercato interno e, quindi, non solo nella ricerca di uno sbocco per il retroterra produttivo.

Le Zes cinesi sono isole di un complesso arcipelago capitalista connesso da fitte reti commerciali, ma anche la cerniera fra il paese e i mercati internazionali. Sono strumenti di uno sviluppo regionale di macro-aree integrate e autonome dal punto di vista amministrativo, ma anche asset strategici per l’economia nazionale.

Senza un saldo coordinamento in grado di garantire una strategia di sviluppo declinata nel medio e lungo periodo, risulta difficile immaginare che le Zes possano riverberare in modo duraturo i propri effetti positivi sul tessuto sociale ed economico di una regione, rimanendo al contempo immuni dalle temperie finanziarie di questa fase d’incertezza. Una volta che si è finalmente palesata la possibilità di fare delle Zes dei “catalizzatori territoriali” per il Mezzogiorno, occorre pensarle, esattamente come nel caso cinese, quali porte verso i mercati internazionali, non solo come parte di una più complessa rete logistica, quanto hub articolati, funzionali a una trasformazione in senso industriale del tessuto economico e, quindi, volte a cogliere le opportunità del cambiamento di paradigma che comporta l’industria 4.0. Va da sé che, in una prospettiva del genere, questa strategia non può sostenersi su politiche di breve respiro e affidarsi alle volatili esigenze della finanza, quanto, piuttosto, su un indirizzo di medio e lungo periodo e su una autorevole classe dirigente in grado di attuarla.

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