Nel corpo a corpo tra Italia ed Europa c’è qualcosa che sfugge, non si riesce a focalizzare bene. L’attuale fase di caduta del debito pubblico italiano preoccupa molti, giustamente. Le conseguenze possono davvero essere gravi, dovendo incrementare gli interessi sul debito e riducendosi il numero degli acquirenti, soprattutto nell’ottica del termine della politica espansiva della Bce. Finanziarsi, per famiglie e imprese, costerebbe molto di più e, considerato il trend della crescita debole e insufficiente come di recente confermato dall’Istat, il Paese rischierebbe di avvitarsi su di sé come un aereo che precipita. Speriamo non si verifichi mai, ma il pericolo è tutt’altro che remota fantasia.



Il Governo continua a ribadire che la manovra sarà espansiva, ma le misure a oggi più commentate non mi lasciano completamente tranquillo: presumere che mandando in pensione anticipata nel 2019 circa 437 mila persone – ma sperando fortemente che non tutti ci vadano altrimenti i costi lieviterebbero a 13 miliardi a fronte dei 6/7 preventivati – possa creare i presupposti per nuove assunzioni, soprattutto di giovani, quasi alla pari, non sembra in linea con il mondo di oggi. L’esistenza di un legame tra la riduzione dell’età pensionabile e l’occupazione giovanile non è un argomento pacificamente condiviso: diversi studiosi (tra cui Boeri prima di assumere la presidenza dell’Inps) hanno osservato come già negli anni ’70 e ’80 misure simili hanno generato maggiore disoccupazione, a causa dell’incremento dei contributi richiesti ai lavoratori, o della fiscalità generale, per bilanciare l’aumento del costo delle pensioni.



Circa la metà dei lavoratori pensionabili dovrebbe interessare la Pubblica amministrazione, in stato sempre più precario. Sembra di ritornare al passato, quando per fronteggiare la disoccupazione si annunciava la creazione di migliaia di nuovi posti nel pubblico impiego, spesso in prossimità delle scadenze elettorali e senza pensare a creare un vero percorso di crescita professionale, indipendentemente dalla qualità del lavoro da svolgere, o perfino dalla sua esistenza. Per quanto riguarda il settore privato, l’esperienza insegna che le aziende, piccole o grandi, non assumono né, per così dire, aritmeticamente (tanti escono, tanti entrano, una sorta di “+” e “-” che si azzerano a vicenda), né indistintamente, essendo ormai l’economia digitale, che richiede personale in specializzazione continua, il protagonista del lavoro in tutti i settori produttivi.



A mio avviso, le cose non vanno diversamente per il reddito di cittadinanza: pur essendo un’idea intelligente, la sua attuazione richiederebbe diversi anni, per poter avviare Centri di sostegno e inserimento nel mondo del lavoro che accompagnino la persona nella ricerca e nell’impegno, cercando di offrire un sostegno quanto più possibile integrato con altre discipline, visto che chi perde il lavoro, o chi non ce l’ha, non si trova in una situazione di serenità e stabilità tale da poter spegnersi e accendersi dall’oggi al domani; non è sufficiente, in altri termini, limitarsi all’adempimento di pratiche burocratiche, come avviene negli odierni Centri per l’impiego. Dare 780 euro al mese a chi non ne ha con il vincolo di spenderli tutti, tendenzialmente in generi di necessità, può far salire i consumi nel breve termine, ma non crea certo sviluppo.

Anche sul versante europeo le cose non vanno meglio. Si hanno forti timori, ad esempio, per le banche italiane, ignorando che, almeno le principali, hanno superato gli ultimi stress test con risultati di tutto rispetto, limitando – per ora – anche la tanto paventata erosione del capitale, dovuta alla presenza nei portafogli di ingenti quantità di Titoli di Stato (nel complesso circa 378 miliardi). Non tutti i banchieri italiani sono così sprovveduti come si pensa: si è ricorso anche a meccanismi contabili (introdotti in Italia lo scorso anno) che consentono di trasferire una parte dei titoli nel portafoglio in cui vengono custodite le obbligazioni liquidabili a scadenza, che non comporta il ricalcolo al valore di mercato con la conseguente contabilizzazione delle minusvalenze; si tratta, in sostanza, di un modo per arginare le perdite dovute al rischio-Paese, peraltro utilizzato da tempo nel resto d’Europa. Non si parla, invece, tanto delle banche tedesche dove la Deutsche Bank detiene preoccupanti quantità di derivati, oltre a essere stata coinvolta nello scandalo della manipolazione dei tassi a breve termine (Libor) nel 2015.

Si ha l’impressione che, vista la scadenza elettorale ormai alle porte, tutti si limitino ad annaffiare il proprio orticello, in cui chi è in procinto di lasciare cerca di mantenere il curriculum più immacolato possibile, chi intende candidarsi alza la voce, tuonando contro l’Europa dei burocrati.

Come si fa a uscire da questa situazione? Non saprei esattamente, né credo esista una ricetta precostituita. Certo, bisogna avere il coraggio di ricominciare a guardare oltre, verso una prospettiva politica e sociale più ampia. Occorre almeno provarci.