Per quale motivo l’Italia è arrivata ai ferri corti con l’Unione europea? Occorre chiederselo in quanto per oggi 19 novembre è stato convocata una riunione a Bruxelles (l’Eurogruppo) e il 21 novembre il nostro Paese attende con impazienza il rapporto della Commissione europea sui Documenti programmatici di bilancio (Dpb) degli aderenti all’unione monetaria, accompagnato, verosimilmente, da un rapporto sul debito. I due documenti potrebbero essere l’anticamera della “procedura d’infrazione”.



C’è senza dubbio una palese “deviazione sostanziale” tra la politica economica e finanziata delineata dall’Italia nel Dpb e articolata nel disegno di Legge di bilancio e gli impegni presi con il resto dell’Unione europea, ma – come documentato la settimana scorsa su questa testata – si sarebbe potuto arrivare a un compromesso, senza modificare i saldi (soprattutto quell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni programmato al 2,4% del Pil tanto caro al M5S), adottando più realistiche previsioni di crescita e spostando alcuni stanziamenti dalle spese di parte corrente a quelle in capitale. Non si è voluto farlo. Perché?



A mio avviso, le determinanti non sono tanto economico-finanziare, quanto puramente politiche. I due azionisti di maggioranza del Governo vogliono presentarsi alle elezioni del Parlamento europeo il prossimo maggio facendo a gara a chi un’agenda più “anti-Commissione europea”. Lo spiega bene l’ultimo libro di Giovanni Orsina (La democrazia del narcisismo – Breve storia dell’antipolitica, Marsilio 2018): dato che il ceto politico non è più in grado di soddisfare – specialmente dopo dieci anni di recessione e stagnazione – le richieste crescenti di una parte sempre più vasta della popolazione, la Commissione europea (e in varia misura altre istituzioni dell’Ue) sono diventate il “capro espiatorio” da utilizzare per scaricare le tensioni. Le due “anime” del Governo – si diceva un tempo – fanno a gara tra chi ne scarica di più.



Infatti, le elezioni europee sono anche un grande sondaggio di popolarità per definire chi dei due “azionisti” ha più voti e – date le differenze in “blocchi sociali” a sostegno dell’uno e dell’altro, nonché date le differenti visioni dei loro leader e dei loro parlamentari – definire le strategie per il futuro. Insomma, c’è la convinzione – giusta o sbagliata che sia – che litigare con l’Ue, e in particolare con la Commissione, porta voti.

A questo punto, come dichiara in interviste il Consigliere economico del ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria, perché avere paura di un’eventuale “procedura d’infrazione” che arriverebbe poche settimane prima delle elezioni europee? Potrebbe essere un’ottima carta per creare consenso. Così come lo furono, in altri tempi le “inique sanzioni” comminate da una Società delle Nazioni istigata da una “perfida Albione”.

Puntando tutto sulle elezioni del prossimo maggio, il respiro è davvero corto. Come documentato più volte su questa testata nelle ultime settimane, è in corso un rallentamento dell’economia europea e sia il Dpb che il ddl di bilancio non solo non aiutano la crescita della produttività (il vero vincolo dell’Italia) e dell’economia, ma rischiano di spingerci verso una nuova recessione. Si potrà allora ancora prendersela con la Commissione e il resto dell’Ue? Nel Seicento napoletano Masaniello provò una mossa simile. E per lui non finì affatto bene.

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