Il tempo, si sa, è galantuomo. E la realtà è la sua sposa. Non perderò quindi tempo in sterili e autocelebrativi “ve lo avevo detto”, commentando le parole di Mario Draghi, pronunciate venerdì durante l’incontro dei banchieri (non centrali) europei a Francoforte. Le avete già lette e sentite ovunque, ovviamente ancora nella loro versione edulcorata: quella in base alla quale si è fatto riferimento solo a un eventuale rinvio del rialzo dei tassi, previsto in un primo momento – e su pressione della Bundesbank – per l’autunno 2019. Balle, senza una manovra di stimolo che prosegua con altri strumenti – aste Ltro per le banche od Operation Twist per i bond sovrani già in detenzione alla Bce, al fine di schermare lo spread operando uno swap sulle scadenze -, viene giù tutto. Lo sapete da trimestri, ormai.



E, signori, non serviva Nostradamus a capirlo: bastava guardare l’evoluzione dei dati macro, le tensioni sul credito interbancario, lo stress nella concessione di prestiti e mutui, l’abuso di emissioni obbligazionarie corporate per ottenere denaro a costo zero e garantito dall’Eurotower. Poi, però, ci si è messa di mezzo la guerra commerciale fra Usa e Cina (formalmente), la quale lungi dal far male veramente ai due protagonisti, ha assestato un colpo da ko all’economia tedesca, già fiaccata dalla corsa alle esportazioni degli ultimi anni e con un sistema bancario con la lingua a penzoloni (lo ha confermato la Bundesbank non più tardi di una settimana fa, commentando il dato della crescita negativa), non a caso finita in contrazione ufficiale nel terzo trimestre di quest’anno, la prima volta dal 2015. Endgame, direbbero gli americani. I quali stanno calmierando gli effetti inflattivi di erosione del potere d’acquisto della classe media grazie all’ultimo impulso dello shock fiscale innescato da Trump appena insediatosi alla Casa Bianca, mentre la Cina vede la Pboc tutta concentrata nel contenimento delle bolle (e delle proteste sociali) interne, lungi dal fornire più al mondo impulso creditizio a costo zero in cambio di accettazione globale della propria deflazione esportata per sovra-produzione.



L’Europa, invece, fatto salvo il Qe che finora l’ha letteralmente tenuta in vita artificialmente, è disarmata. E disunita. Ecco cosa preoccupa Draghi realmente, non la pagliacciata di manovra elettoralistica di questo Governo. Lo preoccupa ciò che vi dicevo la scorsa settimana, il fatto che il giochino in base al quale l’Italia avrebbe dovuto fungere da casus belli controllato per garantirgli spazio di intervento dopo il 31 dicembre sia saltato: a far traballare l’impalcatura europea, ora anche economicamente dopo il ridimensionamento politico patito dalla Merkel, è la Germania. E lasciate stare le idiozie riguardo sedicenti Leghe anseatiche che vorrebbero proporre budget congiunti e tagliare fuori chi sgarra nei conti – vedi l’Italia – dai fondi strutturali: sono balle per creare il panico e sviare l’attenzione dal problema vero, visto che con un bel veto italiano sul Budget, poi si ride.



Draghi sa che sta saltando tutto, non si tratta del nostro spread: il quale, non a caso, è piantato nel range 290-310 come una statua. E non a caso, il governatore della Bce ha sentito il dovere di intervenire sul tema Qe in un contesto non ufficiale, spingendosi ben al di là del suo solito ermetismo, parte integrante del profilo richiesto dal ruolo: occorreva uno stress test sui mercati. I quali, avendo avuto 48 ore per elaborare e decodificare quelle parole, oggi daranno una prima sentenza. Non a caso, non più tardi del 25 ottobre scorso, dopo il board mensile della Bce, Draghi non aveva detto una parola riguardo al Qe e alla sua “piena valutazione”, quella annunciata per dicembre in base ai nuovi e aggiornati dati sull’inflazione (stessa scusa dei giapponesi, pessimo segno). Eppure, all’epoca la raccolta di idiozie economiche di questo Governo e spacciata per manovra era già nota, così come l’intenzione da Don Chiosciotte dei poveri (e con i conti correnti altrui, come direbbe il sempre attualissimo Stefano Ricucci) di questo Governo di andare allo scontro con l’Ue, non arretrando di un millimetro.

Eppure, fu una conferenza stampa noiosa, rituale, senza sussulti. Anzi, il 25 ottobre le prospettive inflazionistiche andavano bene, erano in moderato ma costante rialzo a detta di Draghi. E, attenzione, uscivamo dal mese di ottobre, quello dei bagni di sangue globali sui mercati: i quali avevano appena bruciato 9 triliardi di capitalizzazione, 8,2 dei quali in titoli azionari. Ma Draghi era tranquillo, il percorso di uscita dal Qe tracciato e confermatissimo. Ora, con la scusa patetica dell’inflazione e del rialzo dei tassi, invece, si è sentito il bisogno di caricare la riunione del board di dicembre di aspettative quasi epocali per il mercato: siamo alla vigilia, per capirci, di un intervento che avrà la stessa importanza del Whatever it takes. Se non maggiore, perché all’epoca c’era sì una crisi devastante ma anche tutte le armi a disposizione. Ora l’arsenale è mezzo vuoto, fiaccato da anni di guerra: restano le pistole. O le bombe atomiche, le vie di mezzo come potenza di fuoco sono finite. In compenso, la leva debitoria globale – pubblica e privata – è schizzata ulteriormente alle stelle. E cos’è accaduto, invece, fra il 25 ottobre e venerdì scorso? L’ufficializzazione della contrazione del Pil tedesco, confermata mercoledì della scorsa settimana dall’istituto di statistica di Berlino. E seguita, appunto, dall’allarme della Bundesbank sul livello di stress che gravava sulle banche tedesche.

Insomma, la locomotiva si è fermata. E non pare un guasto da poco, è proprio strutturale. Un guasto sulla linea. Intesa come linea di credito della Bce che Jens Weidmann per mesi ha falsamente contestato e l’opinione pubblica teutonica avversato e vilipeso, arrivando alla farsa della richiesta di giudizio di liceità alla Corte costituzionale di Karlsruhe: salvo, ora, esserne dipendente. Esattamente come i francesi, con le loro banche traballanti, le piazze e i boulevard invasi dai gilets jaunes che traboccano rabbia neo-giacobina contro Emmanuel Macron e – soprattutto – il loro debito privato in traiettoria fuori controllo, a braccetto con quello belga. Della Spagna e dei suoi istituti di credito, nemmeno vale la pena di parlare. L’Europa sta saltando e Draghi sta – in maniera emergenziale e irrituale per un uomo come lui – cercando di mettere l’ennesima pezza, prendere tempo. Sperando, magari, in una fine delle ostilità anti-tedesche (essendo, di fatto, la “nemica” Merkel ormai fuori gioco sul lungo termine) tramite il proxy della guerra commerciale fra Usa e Cina il prossimo 30 novembre al G20 di Buenos Aires. Non fosse altro, perché a metà 2019 l’effetto di controbilanciamento dello shock fiscale andrà a scemare e l’inflazione potrebbe impennarsi davvero negli Usa. A quel punto, come si fa a dire alla Fed di bloccare il rialzo dei tassi?

E attenzione, perché un potenziale game changer figlio legittimo delle tensioni commerciali starebbe per emergere, come ci mostra questo grafico: è fresco fresco, fa riferimento al pre-market di ieri e ci dice che il rendimento del titoli decennale sovrano cinese ora è soltanto 29 punti base più ampio di quello del pari durata Usa. Tradotto? La deflazione cinese sta arrivando. E come si combatte la deflazione?

Attenzione però, tornando all’Europa, ai colpi di coda finali. Parlando di spread fuori controllo per scelte politiche di non allineamento alle regole Ue, Draghi non metteva in guardia l’Italia dalle sue scelte idiote (l’argine di Mattarella e della sua mancata firma alla Manovra sarebbe l’extrema ratio ma è presente, sempre di più) in fatto di politica economica, quanto dai colpi di coda di Francia e Germania contro di noi in questa fase di tutti contro tutti. E noi ci abbiamo messo del nostro nell’isolarci, in primis vendendoci platealmente e per un piatto di lenticchie (sei mesi di esenzione dalle sanzioni contro l’Iran, sai che risultato) agli Usa, gli stessi che hanno mandato in stallo l’economia tedesca: qualcuno, a Berlino, potrebbe volersi vendicare, come ultimo atto politico. Oltretutto, spostando così l’attenzione dei mercati da casa sua e dai guai di Deutsche Bank e Commerzbank. Quindi, Draghi ha lanciato un estremo appello al buonsenso proprio per evitare che Roma, stupidamente, fornisca altri alibi a Parigi e Berlino per giocare sporco, vedi l’annuncio della pagliacciata anseatica.

E attenzione, perché venerdì dalla Germania è arrivata un’altra notizia, oltre alle parole di Draghi da Francoforte. Dopo una serie di inchieste giornalistiche su presunti fondi neri ad Alternative fur Deutschland (AfD), per finanziare la campagna elettorale del 2017, ora la leader del partito, Alice Weidel, è ufficialmente sotto indagine. La sezione di AfD del Lago di Costanza, suo collegio elettorale, avrebbe infatti ricevuto una cifra pari a 130mila euro da una società farmaceutica svizzera, che avrebbe trasferito la somma proveniente da un soggetto anonimo. Lei si difende, sostenendo di aver ricevuto i bonifici – in 18 tranche – a settembre, ma di averli restituiti ad aprile: troppo tardi per i magistrati della procura di Costanza, i quali hanno chiesto al Bundestag di toglierle l’Immunità parlamentare. Vero? Falso? Chi lo sa, sicuramente il partito del cambiamento, dell’onestà, della lotta senza quartiere all’immigrazione e alla criminalità, ora deve ripulire l’abito pubblico da una macchia. E con la crisi in arrivo, si fa in fretta a disilludersi e a cercare dell’altro, quando in cuor tuo la paura per il futuro (e i tanto sudati risparmi) ti fa pensare che “anche loro, alla fine, sono come tutti gli altri”.

Signori, è partita la controffensiva europea contro il sovranismo in vista delle Europee di maggio. Fioccheranno scandali, amicizie inconfessabii, finanziamenti segreti, hacker di vario genere, marziani e ufo, se necessario: c’è di mezzo la sopravvivenza stessa dell’Ue nella sua forma attuale e dei suoi Stati membri egemoni, Germania e Francia in testa. Sarà una guerra senza quartiere, né regole. Mario Draghi ha avvertito il Paese, il suo: attenzione, perché fornendo alibi e mostrando il petto al nemico come ubriachi che cercano la rissa, stavolta finisce davvero male. Un gesto patriottico, forse un’inconfessabile e involontaria riparazione per il Britannia. Chissà. Una cosa è certa, il fatto che il ministro Salvini stia – proprio ora – ingaggiando uno scontro senza precedenti con gli alleati e su un tema certamente non dirimente come i rifiuti al Sud (gli stessi 5 Stelle, i quali nel Mezzogiorno hanno il loro zoccolo duro di consenso, ridimensionano e ricordano che il tema non è nel contratto di governo), parla chiaro.

Qualcuno all’interno della Lega e con ottimi rapporti presso gli indirizzi che contano, italiani ed esteri, gli ha detto che è ora di marcare nettamente le distanze e, se ci saranno le condizioni, staccare la spina al Governo. Al suo segnale, come ne Il gladiatore. Prima che sia tardi. Prima di bruciarsi davvero. Non a caso, il buon ministro Di Maio si è affrettato ieri a rilasciare una bella intervista in prima pagina al Corriere della Sera, nella quale tendeva un ramoscello d’ulivo all’Ue, aprendo ad alcune, potenziali concessioni (ancorché decisamente confuse, come nello stile dei 5S d’altronde). E’ iniziata la guerra, signori. Quella vera. E stavolta, permettetemi di usare la formula sgradevole del “ve lo avevo detto”: siamo al 1992 in versione 2.0 ed europea, se non addirittura globale, mischiato con la replica amplificata del 2008 sui mercati. E noi vogliamo presentarci in guerra con ministri come Toninelli e Savona, il quale pare aver scoperto che «la situazione ora è grave», dopo aver grandemente contribuito a renderla tale, fra “piani B” e mitomanie di vario genere sull’Europa da rivoltare come un calzino in punta di politeia, come riportava sabato sempre il Corriere della Sera in un pezzo di retroscena ottimamente documentato e non smentito da alcuno? Certa gente, dovrebbe chiedere scusa in ginocchio al Paese e ritirarsi a vita privata, indefinitamente.

Speriamo in Draghi e nel Quirinale, a questo punto, stante anche lo stato pietoso delle opposizioni. Altrimenti, iscrivetevi a un corso di lingue per ingraziarvi il nuovo padrone che verrà. Quale scegliere, sarà facile da capire. Forse, già prima dell’estate 2019.