Lo sapete, non credo alle coincidenze. Ad esempio, a questa. «Le esportazioni dal Giappone rimbalzano a ottobre, invertendo la rotta rispetto al calo a sorpresa registrato il mese precedente grazie al maggior invio di auto verso gli Usa, sebbene il rallentamento della domanda globale e l’inasprimento della guerra commerciale Usa-Cina proiettano nubi sulle prospettive per il Paese. I dato forniti dal ministero della Finanza mostrano un balzo delle esportazioni dell’8,2% a ottobre rispetto all’anno precedente, leggermente sotto l’attesa degli economisti di un +9,0% secondo un sondaggio Reuters». Quello che avete letto è un lancio di agenzia di ieri mattina, giunto dall’Asia prima che le Piazze borsistiche europee aprissero.



Poco dopo, sempre dall’Asia, arrivava questa. «Il presidente della Nissan-Renault-Mistubishi Motor, Carlos Ghosn, è stato trattenuto in stato di arresto con l’accusa di aver violato regolamenti finanziari relativi al suo compenso. Il manager 64enne avrebbe fornito informazioni false sul proprio compenso e sui bilanci aziendali. In un comunicato alla stampa, la Nissan afferma che un’indagine interna ha stabilito che il presidente Carlos Ghosn ha fornito false informazioni sul proprio reddito, e indica inoltre che il dirigente verrà licenziato».



Tu guarda che combinazioni! L’export di un settore strategico come l’automobile torna a spingere un po’ l’export del Sol Levante e, voilà, un bello scandalo affossa tutte le speranze, già flebili per i ricaschi a venire della guerra commerciale Usa-Cina, soprattutto in caso non si arrivi (o non si voglia arrivare) almeno a una tregua rispetto al nuovo round previsto da gennaio al G20 del 30 novembre a Buenos Aires. E l’aria che tira è tutt’altro che buona al riguardo, almeno formalmente. Forse, perché come vi dico dall’inizio di questa vicenda, fra i due vasi di ferro, c’è il vaso di coccio europeo e frantumarlo non dispiacerebbe né a Washington, né a Pechino.



Primo, per l’eccessivo peso globale a livello economico che l’Ue ha raggiunto. Secondo, per ridimensionare il profilo di valuta benchmark degli scambi commerciali globali dell’euro, in costante crescita a discapito del dollaro. Terzo, perché almeno l’incendio che garantirà ai pompieri dello stimolo monetario di innestare la sirena e tornare in azione, divamperà lontano da casa: not in my backyard, come per gli inceneritori che tutti (o quasi) vogliono, ma nessuno vicino a casa propria. E ormai ci siamo, signori. I sintomi della malattia vera, non il brutto raffreddore che i mercati hanno contratto nel mese di ottobre, emergono ogni giorno di più. Ecco il principale, a mio modo di vedere.

Il livello di spread attuale Libor-Euribor, quasi al record di 295 punti base, finora si era sostanziato soltanto in altre due occasioni. L’ottobre 1999, prima dell’esplosione della bolla dot.com e il 2006, subito prima di quella immobiliare che portò alla crisi subprime e alla recessione globale. Per Michael Hartnett, capo analista di Bank of America-Merrill Lynch, non ci sono dubbi, «quello spread ci dice che un flash crash è imminente». Insomma, un assedio al fortino della Fed e alla sua politica monetaria. Il tutto, in perfetta contemporanea con l’uscita di Mario Draghi nel corso dello European Banking Congress a Francoforte di venerdì scorso, quella della “piena valutazione” del Qe a dicembre, in base ai dati aggiornati sull’inflazione. E con la questione Brexit talmente sul punto di non ritorno che, guarda caso, il capo negoziatore Ue, Michel Barnier, ha proposto che il periodo di transizione venga prorogato fino al dicembre 2022. A casa mia, il prodromo necessario per far digerire all’opinione pubblica britannica una marcia indietro totale sul tema, come d’altronde “suggeriva” Bloomberg nel suo editoriale di ieri mattina.

E tornando un attimo alla “coincidenza” di inizio articolo, attenzione: a farsi male non sono stati solo i due colossi giapponesi della joint-venture automobilistica, ma anche il terzo socio, la francese Renault. La quale, appena giunta la notizia, ha visto il suo titolo azionario schiantarsi del 12%. Guarda che altra combinazione, lo stesso calo su base annua del mercato automobilistico interno cinese di ottobre: ovvero, il proxy più chiaro del rallentamento cinese, attraverso i consumi interni. Insomma, il mondo sta andando in stallo. E le banche sono, come al solito, il canarino nella miniera. Basta guardare quello spread. E l’assedio alla Bce per ottenere, a primavera, nuove aste di rifinanziamento a lungo termine, le Ltro: pensate che servano solo per le ratio di capitale o per garantire nuovo credito a imprese e famiglie?

Temo che, al netto del calo del mercato auto cinese, l’unico che offrisse il cosiddetto silver lining alle prospettive di vendita dei grandi marchi globali, insieme all’India, saranno ancora una volta le finanziarie dei grandi gruppi automotive a farla da padrone in quelle aste, visto che ormai il core business del comparto si è spostato dalla vendite di veicoli al finanziamento di quella vendita stessa attraverso il credito al consumo. Finanziarizzazione totale dell’economia. E attenti agli “amici” e alleati che si cercano, cari signori. Perché se il voltafaccia austriaco in tema di manovra economica è stato drastico, alla faccia dell’idillio Roma-Vienna millantato dal ministro dell’Interno (con cotè di approdo dell’Università di Soros proprio a Vienna, dopo la cacciata dall’Ungheria, paradossi del sovranismo cialtrone), attenzione a riporre troppe speranze nella mano russa sull’acquisto di Btp per l’anno prossimo, ad esempio. Questo grafico parla chiaro, chiarissimo; stando a un nuovo studio di Bloomberg, le sanzioni economiche imposte dagli Usa hanno drenato il 6% del Pil russo negli ultimi quattro anni. Mio madornale errore in un passato ancora recente averne sottovalutato l’impatto nel lungo periodo, mea culpa.

Stando al team di analisti che ha eseguito la ricerca non ci sono infatti dubbi: «L’underperformance dell’economia di Mosca è troppo grande per essere giustificata unicamente dai bassi prezzi del petrolio». E attenzione, perché non più tardi di mercoledì scorso, l’assistente Segretario di Stato Usa per la sicurezza internazionale e la non proliferazione, Christopher Ford, è stato chiaro al riguardo: «C’è uno statuto relativo alle sanzioni che garantisce un ampio menu di opzioni che sono attualmente sotto attiva considerazione. Il secondo round di sanzioni, in base proprio a questo statuto, prevede un menu decisamente più draconiano del primo». Vi serve la traduzione dal diplomatichese o la prospettiva di ricatto su Mosca appare abbastanza chiara, così come i margini di operatività del Cremlino, a meno di non scegliere l’opzione bellica? Di più, venerdì il titolare del Dipartimento di Stato, Mike Pompeo, ha infatti promesso ulteriori sforzi statunitensi al fine di danneggiare l’export energetico russo: «Continueremo a lavorare insieme per bloccare il progetto Nord Stream 2 che mina la sicurezza economica e strategica dell’Ucraina».

E leggete qui cos’ha detto al riguardo l’8 novembre scorso, parlando durante la sua visita nella strategica Polonia, il Segretario per l’Energia statunitense, Rick Perry. Qualche Stato baltico o del Nord Europa potrebbe finire nel mirino delle “attenzioni” statunitensi? E la Germania, terminale politico e geografico di quel gasdotto, in piena contrazione economica e crisi politica senza precedenti (altro che Lega anseatica contro l’Italia insieme all’assediato dai catarifrangenti Macron)? Qualcuno sperimenterà la “poca affidabilità” delle forniture energetiche di Mosca, quest’inverno, restando per un po’ con poco gas e con i riscaldamenti un pochino più bassi? Così, tanto per vedere l’effetto che fa, come cantava l’indimenticato Enzo Jannacci. Attenti signori, siamo in guerra totale. E non ci si va con questi quattro scappati di casa alla guida del Paese, nonostante il plebiscitarismo di cui godono nei sondaggi e nei bar. La piazza non ha sempre ragione. Anzi, quasi mai. E il voto non è sacro (tanto più che nessuno ha votato per un Governo nato in provetta dopo le elezioni), se in ballo c’è la sopravvivenza.