Bruxelles ha bocciato il Documento programmatico di bilancio del governo italiano per il 2019. Scrive, infatti, la Commissione nel suo rapporto sul debito: “La nostra analisi di oggi – rapporto 126.3 – suggerisce che il criterio del debito deve essere considerato non rispettato. Concludiamo che l’apertura di una procedura per deficit eccessivo basata sul debito è quindi giustificata”, perché la manovra italiana vede un “non rispetto particolarmente grave” delle regole di bilancio, come ha ribadito lo stesso vicepresidente responsabile per l’euro, Valdis Dombrovskis, durante la conferenza stampa. Dombrovskis ha poi aggiunto: “Il debito italiano rimarrà attorno al 131% per i prossimi due anni. Non vedo come perpetrare questa vulnerabilità potrebbe aumentare la sovranità economica. Invece, credo che porterà nuova austerity. Con quello che il Governo italiano ha messo sul tavolo, vediamo un rischio che il Paese cammini come un sonnambulo verso l’instabilità”. E’ davvero così?
“È una motivazione della sentenza – risponde Luigi Campiglio, professore di politica economica all’Università Cattolica di Milano – dove, a differenza di ciò che accade normalmente nella giustizia, pare che l’ultima riga, quando si dice che non mostriamo compliance e che la procedura è giustificata basandosi su debito e deficit, viene posta in cima e non in fondo. Dai toni e dai giudizi espressi dalla Commissione appare una sentenza che contiene un groviglio di contraddizioni, probabilmente dettate molto da motivazioni politiche, visto che a maggio 2019 si voterà in tutti i Paesi Ue”. E commenta: “Con questi giudizi e dichiarazioni incaute la Commissione Ue sta facendo qualcosa che non è nell’interesse dell’Europa. E sì che la Commissione dovrebbe essere sensibile al nobilissimo progetto dell’Europa unita. Sembra invece di vedere lo stesso copione usato con la Grecia: anche se la partita non è ancora chiusa, la voglia di Bruxelles sembra quella di finirla in questo modo”.
Nel mirino della Commissione Ue è finito il nostro debito pubblico. E’ davvero “allarmante” da giustificare l’avvio di una procedura?
Dovendo commentare un documento di questo genere, mi sovviene quel che avviene spesso negli Stati Uniti.
In che senso?
Le persone interpellate, se sono critici verso il governo, esordiscono dicendo: guardate che sono un patriota, amo il mio paese, e intendo fare delle critiche costruttive in nome del mio Paese.
Quali sono le sue critiche costruttive alla Ue dopo questa bocciatura?
Noi siamo un grande Paese dell’Europa, fondatore della Ue. E di fronte a un Paese fondatore il commento della Commissione avrebbe dovuto essere più rispettoso, tenendo oltre tutto conto del fatto che noi abbiamo attraversato dieci anni veramente molto difficili, dei quali si dà scarsamente conto se non in una nota finale, in cui i commissari Ue sì accolgono le giuste considerazioni, che evidentemente il ministro Tria ha portato avanti, ma in modo notarile, tanto che di fatto vengono ignorate. Si parla, per esempio, per la prima volta della delegazione italiana nel gruppo di lavoro sull’output gap, cioè il prodotto potenziale, e si dice che sulla base di queste stime saremmo addirittura in regola con le grandezze di riferimento strutturali. Dopo di che, di queste valutazioni, nel documento finale, non si è tenuto conto nella maniera più assoluta. Vorrei lasciare comunque la porta aperta alla possibilità che possano essere riconsiderate più avanti.
Nel documento si fa riferimento anche al deficit?
Sì, ma in modo molto curioso.
Perché?
Il disavanzo in sé non è l’elemento decisivo, perché altrimenti ci sarebbe una lunga fila di Paesi con deficit fuori posto, a partire dalla Francia. A diventare centrale è, appunto, la questione del debito. Ma su questo punto è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare, andando a vedere come il rapporto debito/Pil dell’Italia si è evoluto negli anni.
Che cosa emerge da questo sguardo retrospettivo?
Nel 2007 il rapporto debito/Pil in Italia era pari al 99,8%, mentre in Germania era il 63,7% e in Francia il 64,5%.
E come si arriva al 131% di oggi?
Arriva la prima crisi, che in Italia viene sentita prima che negli altri Paesi europei, poi nel 2009 un’altra recessione, durissima. A quel punto il rapporto debito/Pil, per la solita storia del numeratore, sale al 115,4%, crescendo di 15 punti, mentre in Germania aumenta di 17 punti e in Francia di 20 punti. Qui subentra una crisi mondiale e arrivano le manovre lacrime e sangue di austerità. E se guardo a quanto è variato il rapporto debito/Pil dal 2010 al 2014, noto che in Germania, Paese che ha continuato a crescere con l’export e tutto il resto, cala di 6 punti, passando dall’81% al 74,5%, mentre in Francia sale di 10 punti e da noi di 16 punti. E’ in quel momento, usciti dalla prima e dalla seconda crisi, che il debito/Pil balza al 131%.
Nel frattempo, l’Europa non resta con le mani in mano, o no?
È vero, vengono varate una quantità esorbitante di regole, di tutto e di più, ma una regola fondamentale, che avrebbe dovuto essere contemplata fin dall’inizio della nascita dell’area euro – e qui abbiamo anche noi le nostre colpe – viene completamente ignorata.
Quale regola?
Dalla notte dei tempi, cioè dalla fine degli anni Cinquanta, da quando Mundell, il padre nobile dell’unione monetaria, dichiarava che l’Europa non era un’area monetaria ottimale e che eventuali crisi, normali, potevano essere assorbite con la mobilità dei fattori, si sottolineava la parola chiave: il rischio che shock asimmetrici fossero un problema per la tenuta complessiva dell’Unione monetaria europea.
Dove sta l’asimmetria dell’Italia?
La nostra principale asimmetria nasce dal fatto di avere ereditato prima dell’ingresso nell’area euro un elevato debito, già nel 1998-99. Questo debito elevato, pari al 105% nel 2000, in condizioni normali dell’economia era sceso al 99,8% del 2007. Dunque, per quanto riguarda ciò che ci imputano, il nostro punto di partenza era particolarmente sfavorevole, e lo si sapeva benissimo. Quando arriva, una crisi senza precedenti dal secondo dopoguerra ha portato a due brevi periodi, il secondo soprattutto, che ha fatto saltare il rapporto debito/Pil dal 115% al 131%.
Questo che cosa dovrebbe farci capire?
Il punto è: esistono regole per tutto, ma una regola che consenta di trattare le conseguenze da shock asimmetrici, che tutti riconoscono, credo anche in documenti ufficiali della Ue, non c’è. È come dire: andiamo tutti in gruppo, stiamo compatti, ma a un certo punto accade un evento imprevisto e nel colpire tutti, come accade per le influenze, alcuni sono più esposti e ne risentono di più. Ecco, c’è qualcosa che possa aiutare chi è più “allergico”? Nelle regole minuziose, e per molti versi poco intelligenti dell’Europa monetaria, questo aspetto non è mai considerato.
Fuor di metafora, visto che noi siamo quelli più “allergici”, che cosa sarebbe necessario fare e non è stato fatto?
Innanzitutto, dare più tempo, a chi ha una crisi allergica, di recuperare e di superare lo shock. Sottolineo: dare più tempo. Se nella normalità si chiede a tutti di essere al massimo livello in ogni momento, è giusto dare quel lasso di tempo utile a far riprendere il respiro. L’Italia si trova nella posizione attuale anche per l’eredità del passato. E’ una situazione che diventa paradossale, se solo ricordiamo che nel 2007 il nostro rapporto debito/Pil era al 99,8%, un livello che oggi ha, per esempio, la Francia. Non bisogna far pesare gli errori del passato su chi c’è oggi.
Perché, secondo lei, diventa paradossale?
C’è un passaggio, a pagina 8 del documento della Commissione, che dice: “Nonostante i progressi passati, realizzati in importanti aree di riforma (mercato del lavoro, riforme dell’amministrazione pubblica, lotta all’evasione…) l’eredita della crisi continua a pesare sulla crescita potenziale dell’Italia. L’Italia è ancora molto sotto al suo livello pre-crisi e questo spiega anche i fattori strutturali che hanno impedito l’efficiente allocazione di risorse, che costituisce un freno alla produttività”. E si nota che ancora un’ampia quota di pensioni di vecchiaia e di servizio del debito frenano i fattori di crescita, come l’educazione e le infrastruture. Ebbene, che noi si spenda poco per l’education e le infrastrutture è vero, ma questa è una conseguenza delle politiche di austerity del periodo 2011-2013. Con l’austerità noi abbiamo tagliato del 15% in termini reali le spese per l’educazione e abbiamo tagliato violentemente – e ce lo imputano pure! – gli investimenti.
Di quanto?
Gli investimenti pubblici lordi – il numero fa impressione – in Italia tra il 2010 e il 2016 sono caduti del 32%, mentre in Germania sono cresciuti solo del 2%. Come vuole che se ne esca quando tutto opera in direzione contraria? È proprio un passaggio paradossale di questo giudizio della Ue, un passaggio in cui si dice: avete fatto tutto quello che vi abbiamo detto, ma ancora non crescete? Ma come mai? Guardate che avete ancora troppe persone anziane… Ma si dà il caso che giovani e natalità sono crollate anche a causa, se non soprattutto, della crisi economica. Siamo in una situazione neo-malthusiana. E che la Ue ce lo venga a imputare, in questo momento di difficoltà, può essere sì parte del gioco, ma non è certo un atteggiamento particolarmente collaborativo per ridare fiato al Paese.
Sta dicendo che con questi rilievi la stessa Ue, in un certo senso, “riconosce” che la strada dell’austerity non funziona?
Esattamente. Ci accusano di non aver fatto investimenti, e questo è invece uno dei fattori importanti per ritrovare la via della crescita.
Professore, in conclusione, qual è il suo giudizio sulla bocciatura Ue?
È un giudizio non solo scritto con la penna avvelenata, ma anche molto contraddittorio, perché quello che ci viene addebitato è causato dalle politiche che abbiamo dovuto adottare, spinti proprio da valutazioni di questo genere.
Visto che all’inizio parlava di sentenza, il finale è già scritto? Siamo già condannati alla procedura d’infrazione?
Mi auguro che la partita non sia ancora chiusa. Ma ciò che veramente preoccupa è che dichiarazioni ufficiali di tal fatta sono come profezie che si autoavverano. È come gridare sempre “al lupo, al lupo!”: alla fine il lupo arriva davvero. Ora il rischio grosso diventa l’andamento dello spread, che agisce subito sulla sottoscrizione dei titoli pubblici, come abbiamo visto in questi giorni con la faticosa asta dei Btp.
(Marco Biscella)