Negli ultimi giorni, molta attenzione è stata dedicata all’isolamento dell’Italia nel contesto dell’Eurozona. È ancora presto per dire se al nostro Paese verrà applicata una procedura d’infrazione per debito eccessivo che la Commissione europea può proporre, ma deve essere comminata dal Consiglio. Non credo che abbia fatto grande effetto sul Presidente della Commissione la descrizione delle due strutture che si vogliono creare per facilitare la progettazione di investimenti: a Bruxelles si considerano come costose duplicazioni di amministrazioni esistenti per immettere nella burocrazia dirigenti e funzionari “fedeli” all’attuale maggioranza. Soprattutto l’Ue deve essere particolarmente rigorosa in una fase in cui i movimenti “sovranisti” e “populisti” possono acquisire, secondo alcuni sondaggi, il 25% dei voti alle prossime elezioni europee, nonostante siano un sintomo prima che la causa del travaglio che adesso attraversa l’Europa.



Una decina di anni fa, in uno studio per l’appunto intitolato “Fractionalization”, Alberto Alesina e Arnaud Devleeschauwer (Harvad), William Easterly (Centre for Global Development), Sergio Kurlat (Banca Mondiale) e Romain T. Wacziarg (Stanford) misero l’accento sulla frazionalizzazione etnica, linguistica e religiosa nei 19 Stati dell’eurozona ed evidenziarono in che misura incida sul modo di far funzionare la cosa pubblica “europea” e gestirla. È tornato sul tema in questi giorni The Economist di Londra in un editoriale in cui si sottolinea il peso acquisito dalle minoranze etnico-linguistiche all’interno dei confini di Stati tracciati cento anni fa al termine della Prima guerra mondiale; la “frazionalizzazione” si accentua e inasprisce. Se non fosse Giudice Costituzionale, Giuliano Amato direbbe che l’Europa e la stessa unione monetaria paiono avere indossato “il vestito d’Arlecchino”, citando un suo libro di circa trenta anni fa a proposito del bilancio dello Stato.



In termini più popolari si può dire che l’Europa appare “a pezzi e a rattoppi”. All’inizio degli anni Novanta, furono molti a prevedere che l’unione monetaria sarebbe potuta finire “a pezzi e rattoppi”. Un saggio su questo tema venne scritto da uno dei maggiori economisti americani, Martin Feldstein, per non ricordare che una delle voci più autorevoli, in cui si avvertiva come l’unione monetaria fosse prematura e senza forti aggiustamenti interni dei Paesi più deboli avrebbe potuto causare la deflagrazione della stessa Ue. È antipatico citare se stessi, ma scrissi anche io un saggio di questo tenore su La Rivista di Politica Economica n.1, 1999 e venni per anni tacciato di essere anti-europeo. Molto più duro un saggio di Alesina, Spolaore e Wacziarg che costò al primo l’allontanamento dal ministero del Tesoro (di cui era consulente), nonostante gli sforzi di Mario Draghi (allora Direttore generale del Tesoro) per farlo mantenere al dicastero: nel lavoro si sosteneva che un’unione monetaria fatta male (quale quella che si prefigurava) avrebbe potuto portare di nuovo veri e propri conflitti sul suolo europeo.



In effetti, l’unione monetaria è stata creata non per esigenze economiche o perché il grado d’integrazione dei mercati dei beni, dei servizi e dei fattori di produzione avesse raggiunto un grado tale da richiedere una moneta unica, ma a ragione dell’unificazione tedesca e del pericolo che il costo venisse posto sulle spalle di europei privi di voce in capitolo.

Cos’è alla base delle preoccupazioni nonostante la forte valorizzazione dell’euro sui mercati internazionali? Da un canto, i “parametri” del Trattato di Maastricht e del “patto di stabilità” (un tetto del 3% del Pil all’indebitamento netto e un andamento tendenziale verso uno stock del debito pubblico non superiore al 60% del Pil) non sono stati rispettati, per uno o più anni, dagli Stati che li avevano concepiti e firmati; alcuni (Germania, Francia) per ragioni di breve periodo derivanti dalla recessione del 2008-2011; altri (come l’Italia) per determinanti più profonde attinenti alle strutture e al funzionamento delle loro economie, nonché dal non avere saputo utilizzare a fini di sviluppo il ribasso dei tassi d’interesse e la politica monetaria accomodante.

In aggregato, lo stock debito pubblico per l’area dell’euro è al 90% del Pil. Siamo molto lontani dal protocollo del marzo 2005 con il quale sono stati ammorbiditi i vincoli del patto di stabilità in caso di recessione. L’Italia pare diventata il birillo debole dell’euro: se cade, può mettere a repentaglio la fiducia nei confronti dell’intera costruzione. Una prospettiva che fa paura anche a chi non è parte della moneta unica

Non basta, però, uscire dall’emergenza immediata. La crisi mette a nudo quanto negli anni Novanta hanno sostenuto economisti come Alberto Alesina e Martin Feldstein: quella dell’euro non ha le caratteristiche di un’area valutaria ottimale in termini di strutture delle economie dei Paesi membri e di flessibilità dei prezzi dei fattori di produzioni e delle merci e servizi con il risultato che senza riforme profonde, al primo scossone internazionale, si hanno conseguenze gravi, e asimmetriche, sui vari Paesi.

Come uscirne allora? C’è chi vagheggia un balzo verso una struttura federale con un trasferimento di entrate e di competenze di spesa ad autorità europee in modo da poter disporre di uno strumento di politica di bilancio che possa integrare la politica monetaria della Bce. Lo hanno proposto, anni or sono, due economisti in auge tra quelli della giovane generazione, Stephanie A. Kelton e L. Randall Wray, nel Public Policy Brief n. 106 del Levy Economic Institute del Bard College. Tesi analoghe sono state sostenute spesso anche da politici, per lo più francesi ma anche italiani. Sono riprese nella proposta franco-tedesca per un bilancio dell’area dell’euro anche per aiutare i Paesi “virtuosi” temporaneamente in crisi.

Si tratta, però, di un’ipotesi non accettata da gran parte degli Stati dell’eurozona in quanto comporta una vera e propria cessione di sovranità dalle autorità nazionali a quelle dell’Eurogruppo. passo che nessun Governo dell’area pare pronto a pur solo congetturare. Tuttavia, non sarebbe un passo risolutivo, ma ci si porrebbe sul sentiero corretto.euro

Leggi anche

SCENARIO UE/ Il "problema Italia" che decide le sorti dell'euro20 ANNI DI EURO/ Il fallimento europeo che può darci ancora anni di crisiFINANZA/ La “spia rossa” sull’Italexit accesa da Bloomberg