Sabato in Francia sono scese in piazza 126mila persone insieme a “gilet gialli” per protestare contro il presidente Macron, attraverso il proxy del costo del carburante: a Parigi erano 8mila, dati del ministero dell’Interno. Per fronteggiarli, la Prefettura della capitale aveva schierato 5mila fra poliziotti e gendarmi. Risultato? Nove ore di scontri sugli Champs Elysée. Guerriglia urbana, sassi contro lacrimogeni, petardi contro manganelli, auto incendiate contro cariche di alleggerimento. Vi pare normale? Io non ho mai gestito l’ordine pubblico in vita mia, ma per quanto una manifestazione possa essere violenta e determinata, se questi sono i numeri in campo, c’è solo una spiegazione: li hanno lasciati fare, perché serviva da un lato spaventare l’opinione pubblica e cercare di fiaccare la solidarietà popolare verso il movimento di protesta e, dall’altro, gettare la croce addosso al nemico numero uno, quella Marine Le Pen che nei sondaggi ha superato Emmanuel Macron (non che ci voglia molto, ce la farebbe anche il comandante Schettino, se si impegnasse un po’). E così è stato: 8mila persone su 126mila scese in piazza a protestare in tutto il Paese, ma sono loro a fare notizia, le poche centinaia che hanno dato vita agli scontri.
I soliti casseurs, i guerriglieri da Starbucks dei centri sociali, magari davvero qualcuno anche dell’estrema destra. Sicuramente, qualche infiltrato e provocatore che sa fare il suo mestiere egregiamente. Avete sentito parlare delle manifestazioni, decise e rabbiose ma pacifiche del resto del Paese ai tg o sui giornali? No, solo degli scontri di poche centinaia di persone a Parigi, dove oltretutto erano solo in 8mila. Contro 5mila poliziotti. È l’informazione, bellezza! Soprattutto quando la controlli, più o meno direttamente, come può ancora permettersi di fare – sempre meno, in realtà – l’Eliseo. E, soprattutto, quando occorre che fuori dai confini patri non escano immagini di ciò che deve fare – e fa, in effetti, ogni giorno di più – davvero paura a Emmanuel Macron: la rabbia della gente comune. Senza partito, né bandiera. Solo un gilet giallo. E tanta rabbia, talmente tanta da non riuscire più a restare sotto controllo.
E loro, il potere assediato, rispondono come sanno, in base al medesimo, consolidato schema di criminalizzazione del dissenso. Si chiama controllo sociale, cari lettori. Si chiama disinformazione, la vera regina e sovrana di questi tempi sempre più bui. E, paradossalmente, questo è nulla. Perché il vero caso di disinformazione del fine settimana, il capolavoro, è stato un altro: ovvero, la disputa attorno alla presunta accusa di Donald Trump contro il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, rispetto ai crolli azionari che si stanno registrando a Wall Street a partire da ottobre. A svelare il retroscena, il solitamente bene informato (e interessato) Wall Street Journal. Poche ore e dalla Casa Bianca è partito il tweet di smentita, con il presidente che ha come al solito bollato la ricostruzione con l’epiteto di fake news, rinnovato la fiducia a Mnuchin e accusato il quotidiano finanziario di non averlo contattato per ottenere una conferma o una smentita prima di pubblicare la storia.
Nulla di nuovo nella disputa fra Trump e la stampa, verrebbe da pensare. Non è così, invece. È una guerra di nervi. E psicologica. Che sottende parecchie strategie, alcune delle quali pericolose. Primo, Mnuchin è storicamente l’uomo che avrebbe suggerito Jerome Powell come nuovo capo della Fed alla Casa Bianca: quindi, la vicenda – se vera, al netto della smentita – si inserirebbe nella ormai cronica guerra di Trump contro la Banca centrale rispetto alla politica di aumento dei tassi di interesse. Ma c’è dell’altro. Davvero Trump avrebbe l’interesse a mettere sulla graticola e, di fatto, delegittimare il suo segretario al Tesoro alla vigilia dell’appuntamento più importante da qui a fine anno, ovvero il G20 di Buenos Aires di fine mese e i colloqui con la Cina sulla guerra commerciale? Quale pazzo manderebbe in sua rappresentanza, su un tema tanto delicato a livello addirittura globale, un cavallo zoppo? Oltretutto, avendolo azzoppato lui stesso?
Non regge. Come d’altronde non regge più nemmeno la narrativa dello scontro fra titani economici che contrapporrebbe Washington a Pechino: casualmente, il giorno prima dello scoop su Mnuchin, lo stesso Wall Street Journal aveva svelato – non smentito da West Wing, né dallo Studio Ovale – l’accusa americana contro il gigante delle telefonia cinese Huawei, reo di spionaggio globale e la richiesta d’Oltreoceano all’Europa di boicottare l’azienda. Notizia a favore, notizia contro. Un po’ come il poliziotto cattivo e il poliziotto buono: alla fine, vogliono entrambi che il criminale confessi. Cambiano solo strategie e metodi. E poi, davvero Trump è preoccupato dai cali borsistici, soprattutto quelli del Nasdaq e delle mitiche Gang? Se lo fosse, agirebbe in altro modo.
E poi, al netto delle barzellette sull’indipendenza della Fed, sappiamo tutti che – seppur con meno sfrontatezza della controparte cinese – la Banca centrale Usa ha il suo “National Team” pronto a intervenire sul mercato, quando occorre sostenerlo nei momenti di difficoltà. Chiedete referenze al riguardo a Ben Bernanke e ai consiglio di amministrazione di Citadel, ad esempio. Invece, pare che dopo anni e anni di manipolazione senza precedenti dei mercati attraverso i vari cicli di Qe, di colpo alla Fed abbiano riscoperto la salvifica capacità, quasi darwniana, del mercato di autoregolarsi. E, signori, disinformazione nella disinformazione, i media stanno facendo di tutto per mantenere basso profilo ai cali drastici di giganti come Apple, al fine che il parco buoi non si agiti troppo. Insomma, Trump bercia tanto contro la stampa e la fake news, ma alla fine ne trae beneficio, alla grande, quando di mezzo ci sono interessi che accomunano Casa Bianca ed editori tutt’altro che puri di quei media. Tutto il mondo è Paese, gli Usa ancora di più. Paradossalmente, a Trump quei cali vanno bene. Anzi, in questo momento sono benedetti. Perché?
Ce lo svela l’ultima rilevazione dell’osservatissimo Consumer Sentiment Index dell’Università del Michigan, il quale a novembre è calato a 97.5 da 98.6. Un dato che ha fallito al ribasso anche la conferma del consensus della lettura preliminare del mese, la quale fissava il dato a 98.3. Direte voi, se lo stato d’animo dei consumatori – in un Paese che vede il 70% del Pil basato sui consumi – peggiora, per un presidente malato di populismo come Trump non è certo una buona notizia. Dipende. Perché come per il Pil o il dato sull’occupazione, sono le letture disaggregate a fare la differenza. Ed ecco che se la fascia di interpellati che si colloca nel terzo più benestante della società americana ha visto il sentiment calare del 6.6, il terzo che si colloca invece nella fascia di reddito più bassa ha visto il suo stato d’animo crescere addirittura di 10.4 punti.
E se i ricercatori del Michigan sono certi nell’attribuire le variazioni registrate ai tremori borsistici, inaspettati dopo trimestri e trimestri di rialzi continui, appare chiaro un elemento di “vendetta sociale” che può fare soltanto gioco a un demagogo come Trump, soprattutto per dissimulare al meglio le responsabilità della sua amministrazione, ora che il rallentamento dell’economia è conclamato (il dato preliminare delle vendite del Black Friday diffuso ieri parla di un -1% su base annua, non una lettura esaltante per l’economia più in salute degli ultimi decenni) e globale e i guai rischiano davvero di stagliarsi pesantemente in un orizzonte temporale più vicino di quanto si preventivasse. La Borsa ha lavorato per Trump, paradossalmente. Il quale, se ricorderete, pochi giorni prima del voto di mid-term fece mea culpa pubblico nel corso di un comizio in South Carolina, dicendo che la sua amministrazione avrebbe fatto di più per la classe media, finora la meno beneficiata dallo shock fiscale. Di più, travolto da sindrome pre-elettorale, annunciò il varo di una manovra di taglio delle imposte designata ad hoc per il ceto medio e lavoratore, di fatto il suo bacino elettorale di riferimento nel dirimente e fondamentale Mid-West e negli Stati industriali dell’Est, come la Pennsylvania. Sentito più nulla al riguardo? Zero.
In compenso, l’Università del Michigan ci ha appena confermato come quella stessa fascia sociale in novembre – ovvero, dopo il fondamentale appuntamento con il mid-term che di fatto ha visto Trump uscire più che indenne dal referendum sui suoi primi due anni di amministrazione e dopo i tonfi di Borsa di ottobre – abbia visto crescere il proprio sentiment. E non di poco. Soprattutto, in netta controtendenza verso gli “odiati” ricchi. E attenzione, perché quella upper-class di delusi non rappresenta certamente l’élite che guida, più o meno ufficialmente e alla luce del sole, gli Usa. Sono medio-alto borghesi ma spesso arricchiti e senza alcun ruolo nell’establishment, quasi sempre lontani (anche geograficamente) dai luoghi che contano davvero (New York, Washington, Boston o Los Angeles) e senza alcuna appartenenza politica pregressa o, peggio, militante (leggi, finanziatori di uno dei grandi partiti). Insomma, un parco buoi solo con maggiore disponibilità finanziaria. Quelli che, dispregiativamente, vengono definiti wannabe: i “vorrei ma non posso”, gli emulatori decisamente pacchiani e ridicoli dei veri potenti. Insomma, una parte di società “innocua” strutturalmente e, di fatto, facilmente recuperabile a livello elettorale, quando servirà, attraverso un’altra massiccia dose di promesse e il consolidato mix di paura e rabbia.
Ma, al netto di questo clamoroso successo politico interno (molto più sistemico di quanto possa sembrare, anche a livello di forza nelle mediazioni in politica estera e nelle contrapposizioni economiche), a cosa sta portando il silenziato corso ribassista di Wall Street?
(1- continua)