Al netto del clamoroso successo politico interno (molto più sistemico di quanto possa sembrare, anche a livello di forza nelle mediazioni in politica estera e nelle contrapposizioni economiche) di cui abbiamo parlato nella prima parte pubblicata ieri, a cosa sta portando il corso ribassista imboccato da Wall Street? A questo, di fatto lo sgonfiamento della bolla creditizia. Appena un accenno, per carità. Ma significativo. Nell’ottobre horribilis appena superato, il margin debt è calato infatti di qualcosa come 40,5 miliardi di dollari, stando a dati ufficiali della Finra (Financial Industry Regulatory Authority), il controvalore maggiore dal novembre 2008, poche settimane dopo il fallimento di Lehman Brothers, come mostra il primo grafico.



La reazione dei mercati è stata palese a questa fuga di denaro da Wall Street, ma quella dei media e dell’opinione pubblica? Praticamente zero, almeno a livello di panico. E signori, stiamo parlando di margin debt, ovvero di denaro preso a prestito per speculare sugli indici di Wall Street: quindi, l’accelerante di ogni incendio doloso di corso rialzista dopato ma anche il detonatore di ogni crollo auto-alimentante, visto che quel denaro che viene drenato dagli indici si sostanzia nelle famigerate margin calls, ovvero chiusure obbligate delle posizioni assunte. A qualsiasi prezzo, pena evitare perdite maggiori. La proverbiale palla di neve che diventa valanga. E in che tipo di ambiente sta avvenendo questo sgonfiamento silenzioso?



 

Ce lo mostrano il secondo e terzo grafico. Dai quali notiamo che durante il boom del mercato iniziato con la grande crisi finanziaria del 2008 e durato fino ai giorni nostri, il margin debt è continuato a crescere, di massimo in massimo, fino a raggiungere il suo picco nel maggio scorso, quando toccò i 669 miliardi di dollari, su del 60% dall’apice pre-crisi del luglio 2007 e del 117% dal gennaio 2012. Bene, da quel picco di sei mesi fa, il margin debt è sceso per un controvalore di 62 miliardi di dollari, un bel -9,2%, di cui appunto 40,5 miliardi solo a ottobre di quest’anno. Il terzo grafico ci mostra la correlazione storica recente fra aumento del margin debt e crolli di mercati azionari ai massimi: quando nell’ottobre del 2002 si arrivò alla fine dello scoppio della bolla dot.com, il Nasdaq era calato del 78%, mentre nel medesimo arco temporale il margin debt era sceso del 54%. Uno scenario simile si è verificato durante la bolla subprime del 2008.



E oggi? Sarà la bolla tech guidata dal calo delle Fang a garantire uno sgonfiamento del margin debt, tale da rientrare in un range di leva normale? Una differenza, se anche fosse così, appare chiara fin da ora: quella dell’informazione. E, quindi, della percezione. Sia nel primo caso che nel secondo, le prime pagine dei giornali e i tg avevano toni da 1929 e le notizie finanziarie erano onnipresenti. Oggi sono di passaggio e i cali appaiono incidenti di percorso, nuvoloni neri che portano qualche temporale in un cielo, quello dell’economia Usa, che resta comunque blu e terso. Non è così, in realtà. E lo dicono i numeri. Ma la Casa Bianca sta riuscendo nel suo capolavoro assoluto, in totale partnership di quelli che formalmente dovrebbero essere i suoi nemici giurati: la stessa Wall Street, i media e i Democratici. Right or wrong, my country, diceva Carl Schurz e vale ancora oggi. Anzi, paradossalmente, oggi che alla Casa Bianca c’è l’antitesi del profilo progressista del soldato unionista, emigrato tedesco e fondatore del Liberal Democratic Party, vale ancora di più.

E attenzione, perché se da un lato l’America sta operando un netto deleverage dei suoi eccessi borsistici, dall’altro ha una seconda, letale arma in mano per colpire gli avversari. Proprio la Fed. E, paradossalmente, se Wall Street riuscirà a non innescare una modalità risk-off troppo ripida, proprio l’aumento del costo del denaro Usa potrà rivelarsi l’arma in più nella guerra globale. Con primo obiettivo, l’Europa sempre più spaccata e in palese rallentamento economico. Il meccanismo può sembrare enormemente complesso, ma non lo è, per il semplice fatto che trattasi delle basi dell’economia, ancorché imbellettate con il maquillage per pochi intimi della nobile arte dell’operare sui derivati. Se la liquidità (in dollari) delle banche cala (e a ottobre quella globale è calata dell’8% su base annua, in ossequio alle politiche di contrazione in atto) e all’orizzonte non c’è un nuovo Qe in grande stile a rasserenare il clima, ecco che le cosiddette swap lines, le linee di credito fra istituti globali, prima vengono razionate, poi si restringono sempre più e alla fine, quando ormai la palla di neve è diventata valanga e a valle ci si chiede come sia stato possibile non accorgersene, si chiudono. Come alla vigilia del 2008. E se quelle linee si seccano, fare hedging sui rischi di cambio nelle valute estere diventa troppo costoso e disincentiva chi, ad esempio, comprava assets statunitensi per trovare un rendimento più alto. Ma se la domanda per quei titoli di Stato cala, il costo di finanziamento del deficit di budget annuale Usa (già oggi spropositato) è destinato a salire e così il costo degli interessi in tutto il mondo. Paesi fortemente indebitati in dollari in testa.

È un gioco semplice, di fatto. E cosa c’entrano le swap lines e i derivati sul rischio di cambio valutario? Semplice, al centro del gioco ci sono le banche. Tedeschi e giapponesi pagano, ad esempio, i bond Usa in euro e yen, quindi sono le banche a subentrare nel cambio: queste prendono a prestito dollari negli Usa, li rivendono sul mercato dei contratti a termine e ricevono euro e yen. Peccato che oggi le banche europee siano sotto stress e stiano vedendo calare, pericolosamente, la capacità di operare in tal senso dopo cinque anni di tassi a breve negativi, bassa profittabilità, qualità del credito che si deteriora e, segnale visibile anche ai comuni mortali, titoli azionari del comparto che calano. Calano a vista d’occhio. E se la capacità delle banche di ottenere i dollari necessari agli investitori locali per costruire hedges (coperture) sul rischio di cambio precipita, come comincia nemmeno più silenziosamente ad accadere in Europa, iniziano i guai. Quelli seri.

Perché ciò che non si sa è che i derivati su valuta estera o swap rappresentano il Monte Sinai degli obblighi da onorare per mantenere in vita il sistema finanziario globale, visto che si parla di un ammontare nozionale di circa 90 mila miliardi di dollari. Nel 2010, erano 60 mila, alla faccia dell’aver capito la lezione impartitaci da Lehman. Stando al report dell’economista della Bri, Robert McCauley, pubblicato nel colpevole disinteresse generale già nel 2017, le banche europee sono “debitrici” di qualcosa come 10.700 miliardi in dollari Usa, di fatto la gran parte dei quali riflettono proprio i requisiti di copertura dal rischio di cambio di quei flussi globali su commerci e investimenti.

La Bri è chiara nella sua messa in guardia: con la Fed che sta già cominciando a operare in modalità di contrazione monetaria e in un contesto di mercato che tenderà a diventare più volatile, le banche europee potrebbero non essere in grado di operare il roll-over sui circa 11mila miliardi di dollari di obbligazioni a breve termine. E potrebbero, di conseguenza, fare default. Ecco che, di colpo, esplode il caso Italia in seno all’Ue, proprio mentre la più “americana” e finanziarizzata della banche europee, Deutsche Bank, si schianta sempre di più sui minimi, giorno dopo giorno. Ed ecco che la numero uno della Vigilanza bancaria, Danièle Nouy, in procinto di essere sostituita – guarda caso – proprio da un italiano, salta fuori, nel pieno di una crisi in gestazione, con un’irrituale “preghiera” per le banche del Bel Paese, affinché non facciano la fine di quelle greche. Salvo, poi, nel giro di 48, lodare i nostri istituti per il loro impegno nello smaltimento degli Npl (e chi ci ha guadagnato, comprando a prezzo di saldo?). Insomma, servono dollari. Ma i regolatori Usa, proprio a causa del deterioramento del credito europeo, impongono alle loro banche un atteggiamento più prudenziale, ovvero accantonare più riserve sul rischio di esposizione verso istituti del Vecchio Continente.

Ed ecco che il perfetto circolo vizioso potenziale è servito. Signori, nulla capita a caso. Come non è un caso che, in queste ore decisive per la Brexit, dopo il formale ok spagnolo relativamente alla disputa su Gibilterra, da Washington minaccino di far saltare fuori e rendere pubblici documenti classificati che potrebbero mettere molto in imbarazzo l’MI6, il servizio segreto estero britannico, relativamente all’intera vicenda Russiagate. Come dire a Theresa May, attenta a come ti muovi sull’addio all’Ue. Perché? Quale interesse avrebbe l’America a interferire sul Brexit? Dove pensate che venga operato il clearing del 90% dei contratti derivati dell’eurozona, se non nella City di Londra? E, guarda caso, a quattro mesi dal formale addio del Regno Unito all’Ue, nessuno ha nemmeno affrontato l’argomento dello status legale di quei contratti, in caso davvero Londra abbandonasse l’Unione.

Tout se tient, cari lettori. L’America sa che la guerra globale in atto – politica, geopolitica, economica e finanziaria – è quella che detterà le regole e stabilirà ruoli e priorità per i prossimi 50 anni. E si è chiusa a testuggine, facendo filtrare all’esterno solo gossip da quattro soldi che simulano divisione e debolezza, vedi la pagliacciata globale e molto mediatica del Metoo o la distrazione di massa della carovana dei migranti. Ma sa che in gioco c’è il futuro e il ruolo stesso di leader mondiale. E va alla guerra, senza farsi troppi scrupoli.

I rischi? Due. Che lo sgonfiamento “controllato” della bolla di Wall Street vada fuori controllo per qualsiasi motivo, facilmente anche esogeno (magari un’Ue che fa un botto troppo grosso e non previsto) e che la Cina, vista la piega che la situazione sta prendendo, capisca le reali intenzioni statunitensi e reagisca su larga scala. E in ogni ambito. L’Europa? È troppo occupata a fornire un alibi a Draghi per guadagnare qualche mese di vita. Come i rassegnati e un po’ patetici ballerini sul ponte del Titanic.

(2- fine)