Tu guarda le combinazioni. Negli ultimi quattro mesi, nel Mare di Azov sono state oltre 200 le navi ucraine fermate e perquisite dalla Marina russa, di fatto un’imposizione di forza rispetto all’accordo di condivisione di quello spazio nautico risalente al 2003: l’annessione della Crimea del 2014, di fatto, ha sancito il controllo pressoché totale di Mosca sui movimenti nell’area. Eppure, finora, nessuno aveva avuto nulla da ridire, nessuna accusa di violazione, nessuna tensione. Di colpo, a pochi giorni dal G20, ecco che scatta l’incidente diplomatico, capace di far ringalluzzire i toni bellicisti della Nato e di spingere l’Unione europea a valutare a tempo di record nuove sanzioni contro Mosca, dopo quelle legate proprio alla questione della Crimea (in tal senso, l’immediato e secco niet di Mosca alla proposta di mediazione avanzata dalla stessa Bruxelles, parla la lingua di una pazienza russa verso le istituzioni europee in rapido esaurimento).



Di più, guarda caso dopo che centinaia e centinaia di imbarcazioni sono passate dallo stretto di Kerch, partendo da Odessa e in direzione Mariupol, di fatto lo strategico porto della città ucraina ribelle e fedele a Mosca di Donetsk, come mostra la mappa, ecco che si arriva addirittura allo scontro armato e alla presa di ostaggi, almeno in base alla ricostruzione di Kiev. Alcuni marinai ucraini sono stati posti in stato di fermo, due arrestati e interrogati: avrebbero ammesso la provocazione deliberata. Kiev parla di costrizione (e, in effetti, io in mano ai servizi di sicurezza russi ammetterei anche l’omicidio Kennedy), Mosca di riprova della reale volontà ucraina. Insomma, guerra di propaganda.



Le cronache allarmistiche, però, parlano già la lingua del Dottor Stranamore, in quella che pare la riproposizione potenzialmente molto più pericolosa dello scenario da allarme permanente rappresentato per mesi e mesi dalla Corea del Nord (ovviamente, nel frattempo sparita dai radar dell’interesse internazionale). Guarda caso, a marzo in Ucraina si voterà e attualmente il presidente Poroshenko gode di un sostegno fra la popolazione pari a quello del conte Dracula in un ostello per vergini, in confronto Macron è ben voluto in patria. Oplà, l’incidente ha immediatamente portato addirittura alla proclamazione di 30 giorni di legge marziale in Ucraina, di per sé già non esattamente un faro di democrazia e rispetto dei diritti civili riconosciuto internazionalmente. Ma si sa, se i nazisti sono sostenuti da Stati Uniti, Fmi, Nato e Ue, vanno benissimo: gli allarmi al riguardo vengono relegati alle politiche sull’immigrazione del nostro Governo, mentre le squadracce bardate con croci runiche che impervarsano realmente nelle città dell’Ucraina al soldo del Governo golpista non vengono assolutamente notate dagli indignati speciali. Nè da Onu e consessi di miopi a comando vari. Miracoli del Dipartimento di Stato e della sua, eufemisticamente parlando, moral suasion.



Ma non basta, c’è di più. Stranamente, infatti, l’incidente del mare di Azov è avvenuto non solo alla vigilia del G20 (e dell’incontro Trump-Putin, ancora di fatto da confermare, ma, quantomeno, non ancora cancellato ufficialmente), bensì poche settimane dopo la vera ragione della nuova ondata di destabilizzazione legata al caso ucraino: questa, ovvero il colpo gobbo compiuto da Mosca come assicurazione sulla vita rispetto al suo export energetico verso Balcani e Ue e alla volontà statunitense di bloccare (o, almeno, ostacolare al massimo), in qualsiasi modo, le infrastrutture di Nord Stream 2, il gasdotto che unirà Russia e Germania, bypassando guarda caso proprio l’Ucraina filo-statunitense di Poroshenko, come mostra plasticamente il primo grafico.

E il secondo, invece, cosa ci dice, non essendo il cirillico una lingua particolarmente intuitiva? Semplice, a fare in modo che saltasse fuori con timing perfetto un bel casus belli che rimettesse l’Ucraina al centro della scena – di fatto, rallentando e non di poco le operazioni “coperte” di Mosca – ci ha pensato l’accordo siglato il 19 novembre scorso a Istanbul fra Recep Erdogan e Vladimir Putin per una riattivazione in grande stile del gasdotto South Stream, in un primo tempo mandato in soffitta nel novembre del 2014 e che oggi invece pare pronto a trasportare via pipeline il gas russo attraverso il Mar Nero. Il progetto, inoltre, si inserisce in una rete di contratti d’appalto già assicurati e siglati fra il gigante russo dell’energia Gazprom e i governi di Bulgaria, Serbia, Ungheria, Slovacchia e Austria.

Nell’incontro di metà novembre, i due leader turco e russo hanno presentato i piani per il completamento delle sezioni off-shore dell’infrastruttura, la quale correrà sotto il mare da Krasnodar fino a un hub a ovest di Istanbul. E parliamo di numeri enormi, perché la capacità di trasporto della pipeline sarà di 30 miliardi di metri cubi all’anno, anche se nella fase iniziale la prima pipe opererà per circa 17 miliardi di metri cubi: il volume totale è quello che, di fatto, Gazprom già oggi fornisce ai governi prima elencati, 16 miliardi circa alla Turchia attraverso la pipeline Blue Stream e il rimanente alle nazioni europee proprio attraverso l’Ucraina. La quale, in base al nuovo progetto russo-turco, perderà quindi il transito di circa 14 miliardi di metri cubi di gas l’anno e, soprattutto, il denaro che questo transito garantisce alle casse di Kiev, da anni ormai totalmente dipendenti dai prestiti del Fmi e terribilmente esangui, tanto da aver costretto Poroshenko ad aver disatteso tutte le promesse elettorali relative al welfare, motivo del suo crollo nei sondaggi.

E anche in questo caso, non si tratta di numeri da poco. Stando a calcoli compiuti dal think tank Bruegel, la nascita di Nord Stream 2 rischia di costare a Kiev qualcosa come il 2-3% del Pil a livello di mancati introiti sui diritti di transito del gas russo, cui ora rischia di andare a sommarsi un altro 1,5% di crescita annua legato proprio alla rinascita del progetto South Stream. Sul lungo termine, il costo potrebbe arrivare quindi al corrispettivo del 5-6% del Pil. Dal canto suo, invece, Gazprom – e quindi, Mosca – otterrebbe un duplice successo dall’operazione: garantirsi una doppia opzione di fornitura, sia alla Turchia che all’Europa, Balcani e Continentale, per non dipendere totalmente da Nord Stream 2 sotto attacco diplomatico Usa e contemporaneamente tagliare fuori l’Ucraina, infliggendo un danno economico e geostrategico rilevante a un avversario politico acerrimo. E, soprattutto, proxy nell’ex Urss dell’amministrazione degli Stati Uniti.

Oltretutto, colmo del paradosso, tutti gli appalti sono in assoluta ottemperanza della direttive energetiche dell’Unione europea, di fatto una beffa assoluta, poiché grazie alla joint-venture con la Turchia, altro soggetto non particolarmente in buone relazione con l’Ue, Gazprom ha bypassato bellamente tutti gli ostacoli procedurali e di forma che bloccarono il progetto South Stream nel 2014. Infatti, dall’indizione delle gare e alla loro attuazione, il gigante russo ha seguito pedissequamente lo schema utilizzato con Nord Stream 2 rispetto ai governi europei controparte delle infrastrutture, ovvero Germania, Slovacchia e Repubblica Ceca. Di fatto, a meno di una rottura diplomatica unilaterale e senza precedenti (ma con parecchie conseguenze sull’approvvigionamento energetico), a oggi in punta di diritto per l’Ue è impossibile bocciare il progetto.

Washington, nemmeno a dirlo, non ha gradito la mossa. Anche perché la storia del boicottaggio dell’infrastruttura è lunga, visto che fu l’amministrazione Obama già dal suo primo mandato a cominciare l’opera di lobbying anti-russa nell’Europa dell’Est, nella fattispecie in Bulgaria, al fine di limitare il passaggio del gas di Mosca verso l’Ue e i Balcani. Tutto inutile, almeno stando ai risultati attuali. I quali parlano chiaro. In seno al progetto South Stream, infatti, Gazprom ha già chiuso un contratto di fornitura da 4,3 miliardi metri cubi fino all’ottobre 2022 con la Slovacchia, uno da 3,8 miliardi con l’Austria, uno da 4,7 miliardi con l’Ungheria, uno da 2 miliardi con la Serbia e l’ultimo da 4,8 miliardi di metri cubi con la Bulgaria. Insomma, da qui alla scadenza dei contratti fra quattro anni, South Stream o Turk Stream, come preferite chiamarlo, avrà pompato nel Sud Europa il corrispettivo dell’attuale transito attraverso l’Ucraina, colpendola pesantemente nelle entrate fiscali.

E attenzione, perché già nel 2021, quando ancora South Stream non sarà completamente operativo, il transito del gas russo attraverso l’Ucraina sarà sceso sotto quota 10 miliardi di metri cubi l’anno. Un totale disastro per Kiev, soprattutto in pieno periodo pre-elettorale. Stando a calcoli dello European Council on Foreign Relations, tra il 1991 e il 2000, l’Ucraina pesava per qualcosa come il 93% del totale nel transito del gas russo verso l’Europa: nel gennaio del 2014, quella quota era già scesa al 49%. Quel crollo innescò la lotta a colpi di tariffe fra il gigante petrolifero statale ucraino Naftogaz e Gazprom, con il primo che triplicò la tassa per il transito di gas verso Slovacchia e Polonia e raddoppiò quella verso tutti gli altri Paesi europei. Tutto inutile, il monopolio ucraino – di fatto – non esiste più. Mentre, alla luce del rinato progetto South Stream e all’ok di tutti i Paesi europei del Nord, l’ultima la Danimarca, alla costruzione delle infarstrutture di Nord Stream 2, quello di Gazprom appare non solo intatto ma destinato a consolidarsi. Uno sviluppo che Washington non può accettare supinamente e silenziosamente: capito adesso perché il Dipartimento di Stato fu così ultimativo, ancorché attraverso la formula pop e social del tweet, verso il governo Conte rispetto alla necessità inderogabile che il gasdotto Tap si facesse, nonostante proteste popolari e promesse elettorali dei Cinque Stelle? E capito perché, nonostante la figuraccia, gli stessi Cinque Stelle abbiano ingoiato il boccone senza battere ciglio e in tempo record, compreso il pasionario Di Battista, il quale sarà anche il Che Guevara de noantri, ma sa che scherzare con gli interessi geopolitici ed energetici degli Usa può costare parecchio a livello di salute? E capito perché, a rischio di comprimere i margini dei produttori di shale oil e di far andare fuori giri il rischio di credito del comparto energia dell’alto rendimento obbligazionario Usa, la Casa Bianca sta facendo di tutto per far scendere il prezzo del petrolio, minacce all’Arabia Saudita (con strane esecuzioni nei consolati, guarda caso in Turchia) in testa?

Non a caso, martedì il prezzo del Wti è sceso nell’area dei 50 dollari al barile, minimo da ottobre 2017. E, paradosso dei paradossi, se per l’incidente nel Mare di Azov, l’Europa si dimostrerà così supina agli interessi Usa da varare nuove sanzioni, sarà interessante non solo vedere l’atteggiamento del Governo italiano, diviso fra il trumpismo parossistico di Conte e il putinismo non meno estremo di Salvini, ma anche come si comporterà l’Austria, Presidente di turno dell’Unione, quindi formale ratificatore della decisione ma anche cliente affezionata, fresca di firma del contratto con Gazprom, del gas russo, alla faccia dei bypassaggio dell’Ucraina. Come al solito, ipocrisia allo stato puro. Su tutta la linea.

Ma signori, è inutile che ve lo ripeta per l’ennesima volta: nulla è come appare, quando dietro alle versioni ufficiali si nascondono affari e interessi miliardari e strategici. Tu guarda che casualità, il 19 novembre a Istanbul rinasce il progetto South Stream e nemmeno una settimana dopo, dopo mesi e mesi di pacifica – ancorché guardandosi in cagnesco – convivenza fra Marina russa e ucraina nel Mare di Azov, compare un bell’incidente che alza di nuovo la tensione nell’area e a livello diplomatico internazionale con Mosca, obbligando l’Europa all’ennesimo vagabondaggio con il piede in due scarpe. E ieri, ulteriore coincidenza, a Mosca riesplode l’emergenza terrorismo, con allarmi bomba a raffica che hanno portato all’evacuazione di 4mila persone in dieci centri commerciali. Come dire, la scusa pronta per una risposta senza mediazioni la stiamo già creando, qualunque sia la natura reale di quell’emergenza.

Tout se tient. Attendetevi sviluppi. A breve. E, con ogni probabilità, in quella palestra della destabilizzazione globale che è diventata la Turchia un po’ troppo doppiogiochista di Recep Erdogan.