Promosse. C’è un sospiro di sollievo dietro il giubilo con il quale sono stati accolti i risultati degli stress test effettuali dall’Eba sulle banche italiane. In effetti, le prime quattro (Intesa, Unicredit, Bpm e Ubi) hanno superato le simulazioni dimostrando di essere in grado di superare una nuova recessione. Non sono tutte rose e fiori, perché l’impatto sarebbe comunque pesante in particolare su Ubi e la Popolare di Milano. E teniamo conto che i test sono stati fatti sui bilanci dello scorso anno con uno spread massimo a 250 punti base e non c’era stato il crollo in borsa (meno 35% per i bancari rispetto a una media di meno 20%).
Il ministro Tria si è detto “soddisfatto”, eppure il Governo sa che in Italia esiste ancora una questione bancaria, tanto che autorevoli esponenti da Giancarlo Giorgetti a Luigi Di Maio dichiarano di essere pronti a ricapitalizzare, con denari pubblici, le banche che ne avessero bisogno. E alcune, non esattamente di secondo piano, ne hanno bisogno eccome. Prendiamo la Carige, la Cassa di risparmio della provincia di Genova. La Banca centrale europea la tiene sotto stretta osservazione, ma le ha concesso un altro mese di tempo. In borsa dicono che il suo patrimonio di vigilanza sia sotto la soglia minima (cioè il 5,5%) e si parla di un nuovo aumento di capitale da 200 milioni dopo il mezzo miliardo di un anno fa. L’azionista di maggioranza Vittorio Malacalza che possiede il 27,5% si è detto disposto a fare la sua parte, ma è ancora tutto aperto.
Secondo Fitch, la Carige rischia seriamente il fallimento, una dichiarazione che ha indignato i vertici della banca, ma ha avuto effetti pesanti sul mercato (-25% a ottobre, -74% in un anno). Ma lo stesso vale per il Monte dei Paschi di Siena. La Bce lo ha esentato dall’ultimo test per via della sua nazionalizzazione “temporanea” decisa l’anno scorso dal governo Gentiloni. Da allora Mps ha perduto in borsa il 68% e il 33% nell’ultimo mese. Certo, c’è la garanzia pubblica, ma il Tesoro (cioè in ultima istanza i contribuenti) ha speso 5,4 miliardi per il 68% delle azioni e oggi l’intero capitale vale poco più di un miliardo e mezzo. Fino a che punto è tollerabile una perdita del genere? Certo, finché il Governo non decide di uscire l’ammanco resta solo un dato contabile, tuttavia lo Stato non può restare in eterno. Si cerca la classica scorciatoia: maritare il Montepaschi con un’altra banca, ma finora nessuno vuole prendersi un tale fardello. Il risanamento è legato sia alla vendita dell’enorme ammontare di crediti deteriorati, ma anche a un ulteriore rafforzamento del capitale. Chi paga? Ancora Pantalone?
Ci sono inoltre altre situazioni critiche, a cominciare dalla Banca popolare di Bari i cui vertici, a cominciare dalla famiglia del fondatore, Luigi Jacobini, sono stati messi sotto inchiesta dalla magistratura, mentre 70 mila soci che hanno visto crollare il valore dei titoli da nove a due euro, chiedono di essere rimborsati. Aperta è la sorte del Credito Valtellinese, da poco passato sotto guida francese: l’azionista di riferimento è diventato Denis Dumont, proprietario dei supermercati Grand Frais, sostenuto dal Crédit Agricole. E poi sono ancora da esaminare la Banca popolare dell’Emilia Romagna, la Popolare di Sondrio, l’Iccrea, il Credem, o la stessa Mediobanca che, però, non presenta particolari criticità.
Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, alla giornata annuale del risparmio mercoledì scorso, ha ricordato che dalla metà di maggio il valore di mercato dei titoli di Stato si è ridotto: per quelli con durata superiore all’anno le perdite sono state, in media, dell’8%, mentre il valore di borsa per le banche è calato del 35%, rispetto a una media del 20% per il complesso delle società quotate. In cinque mesi il costo per raccogliere fondi sotto forma di obbligazioni è più che raddoppiato e di qui a un anno scadono bond bancari per 110 miliardi, circa il 40% di quelli in circolazione. Gli intermediari finanziari detengono titoli pubblici per circa 850 miliardi, è evidente l’impatto dello spread in una congiuntura economica che Ignazio Visco ha definito “meno favorevole”.
È vero che il coefficiente relativo al capitale di migliore qualità è salito, in media, al 13,2%, dal 7,0% del 2008; ma non basterà. I contribuenti italiani finora hanno speso meno di altri: l’impatto dei salvataggi sul debito pubblico ha raggiunto un massimo dell’1,3% del Prodotto interno lordo alla fine del 2017; in Francia, Spagna, Germania e nei Paesi Bassi i picchi raggiunti negli anni di crisi sono stati di circa il 4%, il 5%, il 12% e il 13%. Tuttavia adesso è il Governo ad avvertirli che dovranno mettere ancora mano al portafoglio.
Si dice che le banche italiane sono in crisi perché l’Italia è in crisi. È’ vero, ma solo in parte. Ciò riguarda soprattutto il peso ancora consistente dei crediti deteriorati e l’aumento del rischio legato di titoli pubblici, tuttavia le banche italiane nel loro insieme sono rimaste a metà del guado. Quando è scoppiata la grande crisi del 2007 erano in piena frenesia da fusioni e acquisizioni (Intesa-Sanpaolo, Unicredit-Capitalia, Montepaschi-Antonveneta), ma nell’insieme il sistema creditizio era ancora arretrato tecnologicamente, con un eccesso di sportelli, agenzie, personale e una pletora di banchette locali troppo piccole per competere e troppo grandi e generaliste per occupare nicchie di qualità. Non solo. Tradizionalmente le banche italiane facevano utili non offrendo servizi ad alto valore aggiunto, ma con la differenza tra tassi attivi e passivi; quando i tassi di interesse sono scesi a zero, la forbice si è chiusa e l’impatto sul conto economico è stato pesante.
Dunque, non c’è solo la mala gestio che ha messo in ginocchio aziende creditizie blasonate (dal Montepaschi alla Popolare di Vicenza, per esempio), non c’è solo la lunga recessione o l’impatto dello spread. Il sistema bancario italiano ha bisogno di una profonda ristrutturazione, con un ripensamento del suo modello di business. Il modo migliore per aiutare le banche, dunque, non è tanto far ricorso a continui salvataggi pubblici, ma aiutare la transizione, garantendo il risparmio e fornendo gli ammortizzatori per un percorso che ha certamente anche seri impatti sociali.
La questione bancaria italiana richiede, anche da parte del Governo, una strategia di sistema, non la politica delle mance, costosa (perché le ricorse per continue nazionalizzazioni non ci sono) e, alla lunga, inefficace perché getta la polvere sotto il tappeto.