L’appannamento crescente della Goldman Sachs è visibile principalmente nella reputazione, non nei conti. Ma per una banca – per “la banca” nel firmamento globale – è tanto più grave: e può facilmente trasmettersi alle cifre e condizionare le strategie. Anzitutto coglie la Goldman – forse non casualmente – a cavallo del delicato cambio della guardia al vertice fra Leon Blankfein e David Solomon. E poi la (pre)crisi della regina di Wall Street – a dieci anni dallo scoppio della Grande Crisi a Wall Street – sembra coincidere con dinamiche più ampie e profonde dentro e attorno il baricentro americano: l’affermazione politica (almeno temporanea) del trumpismo e quella – più complessa e accidentata – della tecnologia come infrastruttura egemone del sistema socioeconomico. Ma andiamo con ordine.
Due partner della Goldman – lo statunitense Tim Leissner e l’italiano Andrea Vella – sono stati incriminati per lo scandalo 1MDB: un fondo statale di sviluppo della Malaysia, da cui sono stati sottratti alcuni miliardi di dollari (fra 2,7 e 4,5). I fondi sarebbero finiti, fra l’altro, in alcuni conti dell’ex primo ministro Najib Razak, arrestato pochi giorni fa per corruzione assieme a un top manager Goldman a Kuala Lumpur. Il ruolo della banca – messa nel mirino anche dal Dipartimento della Giustizia statunitense per frode – era già finito sotto i riflettori del mercato: Goldman era stata la collocatrice di oltre 6,5 miliardi di obbligazioni di 1MDB, riservandosi una maxi-commissione vicina al 10%, nettamente più alta rispetto agli standard. Leissner (che si è dichiarato colpevole) era entrato nel gotha dei partner Goldman anche per questo colpo nella strategica area asiatica, guidata in tandem con Vella. Fin qui la cronaca: ricca di apparente nonchalance di Wall Street sull’ipotesi di danno per il bilancio (fino a 1,8 miliardi) e di imbarazzati e insidiosi tentativi di difesa.
“Trenta manager Goldman avevano esaminato l’affare 1MDB: compresi il Ceo Solomon e il suo predecessore Blankfein”. La “testuggine” subito evocata dal quotidiano della City per segnalare la determinazione dei partner Goldman di difendersi con ogni mezzo, non può non evidenziare che proprio poche settimane fa è cambiato il generalissimo. Blankfein era in carica dal 2006: da quando il predecessore Hank Paulson si era trasferito al Tesoro, tentando inutilmente di evitare un collasso finanziario paragonabile a quello delle Torri Gemelle (e in parte figlio di quello del 2001: la bolla della finanza derivata immobiliare comincia lì). Era stata Goldman – peraltro sospettata di non aver fatto nulla fino all’ultimo per evitare il crack di Lehman – a guidare la resistenza attiva delle big di Wall Street: prima salvate con il gigantesco piano Tarp finanziato dallo Stato, risparmiate da qualsiasi vera resa dei conti giudiziaria o regolamentare negli otto anni di presidenza Obama – e infine ritornate a macinare profitti. La Goldman “vittoriosa” di Blankfein sta facendo il suo tempo?
Apparentemente no, se si pensa che Donald Trump ha inizialmente pescato a piene mani nei ranghi della banca: prima chiamando il numero due Gary Cohn alla Casa Bianca come suo consigliere economico, poi insediando il manager Steve Mnuchin al Tesoro. Però è chiaro che il “trumpismo” si afferma e consolida a “Main Street”: l’America minuta dell’economia reale che i democratici avrebbero dovuto riabilitare dopo “il falò di Wall Street” e che invece si è paradossalmente affidata al tycoon populista newyorchese. Che per la verità ha ripagato tutti: l’America profonda con una vigorosa ripresa economica e dati occupazionali record; ma anche la Borsa, che non è affatto caduta dopo lo showdown del novembre 2016. Se anche Trump sta lavorando a una ri-deregulation della finanza (ma la ri-regulation post crisi è stata più apparente che reale) è chiaro tuttavia che l’America First della Casa Bianca non è quella degli anni ’90 o dei primi anni del nuovo secolo: fortemente basata sull’asse fra Wall Street e il centrismo democratico-clintoniano.
Ma c’è anche – e forse soprattutto – altro. L’ombelico dell’America – e forse del pianeta – non è più (o non è più solo) nella parte bassa di Manhattan: è sempre di più nella Silicon Valley, dove i big (da Google ad Amazon, fa Facebook ad Apple) lavorano sempre di più per annettersi i territori della finanza, che fino a ieri costituivano la vera piattaforma della globalizzazione. I sistemi di pagamento – il business bancario di base – sono già quasi conquistati. Altri segmenti-chiave (i mutui e il credito al consumo, il risparmio gestito alle famiglie, le polizze assicurative e previdenziali) sono già sotto attacco: soprattutto con le “armi letali” della profilazione integrale degli utenti e dell’intelligenza artificiale per strutturare offerte mirate di prodotti e servizi. L’offensiva strategica finale non potrà essere che a Wall Street: dove già la tecnologia ha accresciuto enormemente il suo peso (ed è verosimile che qualche pericoloso “cigno nero” sia nato esclusivamente da qualche congiunzione imprevista interna ai “program trading” che fanno il mercato). Del resto com’è possibile escludere le potenzialità di “gestione egemone” dei mercati finanziari per tecnologie ICT già ampiamente sospettate di manipolare le elezioni democratiche?
I partner Goldman in attività (circa 450), gli ex e i veterani – mai in quiescenza – riusciranno forse a contenere gli impatti dell'”affaire” 1MDB nel continuo “game power” fra politica e finanza su scala globale. Altra è ovviamente la scommessa su cosa sarà la Goldman Sachs fra dieci anni.