Conviene prepararsi. Al peggio. E non mi riferisco all’incidente fra un caccia russo e un’ammiraglia della Sesta Flotta in Norvegia nel corso della mega-esercitazione Nato conclusasi sabato. Quelle sono schermaglie, equivalgono al duello fra Mig e F-14 all’inizio di Top gun, quando Tom Cruise si mette in volo rovesciato e fa il dito medio al pilota russo. Io parlo di rischio reale, strutturale. Il sistema non regge. Non può reggere. Il metadone messo in circolo è stato troppo e per troppo a lungo per sperare che, come per un tossico, basti la “forza di volontà” per riabilitarsi e restare pulito. Che, nel gergo dei mercati, significa niente più che ricominciare a operare in base a dati macro reali e logiche di domanda e offerta, fair value e price discovery. Concetti antiquati, nell’era faustiana del combinato Banche centrali e algoritmi.



Il mondo non ha più una guida, gli assetti sono tutti saltati. L’India, l’altro giorno, ha siglato un contratto di fornitura militare con la Russia per sistemi missilistici S-400, un controvalore di 5,4 miliardi di dollari. Ma il contratto (e il pagamento) è stato stipulato in rubli. Fino a un anno fa, sarebbe stata follia solo pensarlo. Parliamo dell’India, la “I” di Brics, che volta le spalle al dollaro e agli Usa. I quali, dal canto loro, sono pronti a coprire diplomaticamente il colpo di Stato che sta per avvenire in casa Saud, dopo che il casus belli dell’omicidio Khashoggi ha fornito l’alibi perfetto per rimettere un po’ d’ordine a Ryad. Scommettete che, dopo aver venduto armi all’Arabia fino a ieri per massacrare civili in Yemen, sarà proprio una strage di civili in quel martoriato Paese a fornire la “linea rossa” perché Washington rompa con il Principe troppo arrampicatore e poco gestibile? Basta ricordare la strage di Racak che diede vita all’attacco contro la Serbia, d’altronde, senza scomodare Pearl Harbor. Questa è Storia, non mera cronaca. E la stiamo vivendo, giorno dopo giorno, senza quasi accorgercene.



Il settore corporate americano sta annegando nel debito, un gigante come General Electric, dopo il downgrade di pochi giorni fa da parte di Moody’s, è tagliato fuori dal mercato delle commercial papers, di fatto una fonte primaria di finanziamento e alternativa a un mutuo bancario tout court. E di cosa si tratta? Sostanzialmente, la commercial paper è una lettera con cui viene riconosciuto – da parte dell’emittente – il debito nei confronti del creditore e nella quale viene indicata la somma ricevuta, il tasso di interesse applicato, la data di pagamento del debito (con scadenza inferiore ai 270 giorni rispetto alla data di emissione), oltre alla banca incaricata di effettuarlo. GE perse già una volta l’accesso al mercato delle commercial papers durante l’ultima crisi finanziaria e questo portò a un quasi collasso terminale a livello di liquidità per il conglomerato industriale. L’azienda, infatti, utilizzava questo metodo per finanziare le sue operazioni quotidiane ed è stata una degli emittenti maggiori di debito: passata la buriana, è tornata a esserlo. E solo nel secondo trimestre di quest’anno, il debito emesso da GE è stato di circa 16,6 miliardi di dollari, una porzione non frazionale della montagna di debito totale che porta sulle spalle: oltre 116 miliardi di dollari.



Il management ha già dichiarato che rimpiazzerà il finanziamento venuto a mancare con accordi commerciali su facilities bancarie già stipulate per 40,8 miliardi di dollari, promettendo inoltre un piano per la riduzione della dipendenza dal debito a lungo termine. E il mercato, ci ha creduto? No, infatti si parla di Chapter 11. Ovvero, bancarotta. E parliamo di General Electric, signori. Non sto a ripetervi la quantità di controvalore di debito junk che grava sul mercato, perché nei mesi ho dedicato a quell’argomento decine di articoli: siamo al collasso e i rialzi della scorsa settimana sono soltanto rimbalzi del gatto morto ed enormi, epocali short squeeze, ovvero corsa a ricoprire posizioni ribassiste, perché l’ennesima voce su un accordo con la Cina da siglare al G20 di fine mese a Buenos Aires ha riattivato l’ottimismo pavloviano di chi ha ancora immondizia da scaricare dal bilancio prima che sia tardi. E il parco buoi, compra.

E attenzione, signori, perché non pensiate che il problema sia il singolo cittadino che punta sul titolo azionario o sull’Etf sbagliato e ci lascia la ghirba. No, il problema vero sta in questo grafico: sono società assicurative e fondi pensione a detenere il grosso del mercato ad alto rendimento, non gli hedge funds. E questo a causa proprio del Qe perenne, visto che con i rendimenti a zero o sotto zero per troppo tempo, anche gli investitori più statutariamente conservativi sono stati costretti ad azzardare, alla ricerca del rendimento minimo per i propri sottoscrittori. Ora, si ritrovano con in mano una bomba senza spoletta. Non c’è altra speranza, occorre che si ritorni a iniettare liquidità. Punto e basta.

La Cina, come vi ho detto nel mio articolo di sabato, ha visto l’ultima lettura del PMI a 50.2, quindi sulla soglia della contrazione ufficiale. Significa che, in realtà, sta già contraendosi. E parecchio. Quindi, la politica di sgonfiamento controllato dell’eccesso creditizio legato al sistema bancario ombra che la Pboc ha posto in essere, di fatto facendo venire a mancare l’impulso creditizio al sistema finanziario globale (il vero bancomat), non ha funzionato. O, quantomeno, non è stato sufficiente, al netto anche delle guerra commerciale con gli Usa che adesso comincia a farsi sentire, seppur non in maniera ancora devastante. E gli Usa? Anche qui, è inutile che mi ripeta. Come stia davvero l’economia reale statunitense, al netto della narrativa ufficiale di Wall Street, lo sappiamo tutti. E sappiamo anche, visto che ne ho parlato diffusamente, che per ora il mega stimolo fiscale lanciato da Donald Trump appena eletto (capace di portare il deficit e, quindi, le spese per interessi sul debito americano alle stelle) sta operando da controbilanciamento sull’inflazione reale e sull’erosione del potere d’acquisto, ma quanto durerà?

I calcoli parlano del primo semestre del 2019, poi quell’azione dopante per l’economia svanirà. E cominceranno i guai, come ci mostra questa proiezione di Societe Generale, molto interessante proprio perché basata sul calcoli che contemplano la graduale perdita di intensità dello stimolo fiscale e degli incentivi federali: signori, è recessione. Molto prima del previsto. E con il mercato in bolla, perché per quanto i giornali minimizzino, giova sempre ricordare che nel solo mese di ottobre il mercato ha bruciato 9 triliardi di capitalizzazione a livello globale, 8,2 dei quali sull’azionario. Così, nel pieno della cosiddetta stagione record dell’economia statunitense.

Ora le balle stanno per terminare, occorre che accada qualcosa che svegli dal torpore le Banche centrali o i trucchetti della politica di annuncio o dell’espansione dei multipli di utile per azione attraverso i buybacks perderanno mano a mano intensità, perché sempre più grandi players capiranno che stavolta la musica sta finendo davvero. E cercheranno la porta di emergenza. Il primo grafico mi pare vi dimostri plasticamente chi resterà con il cerino in mano. Ma come si fa, ad esempio in Usa, a imporre alla Fed di smetterla con il rialzo dei tassi, visto che l’inflazione ufficiale è sì sotto al 2% ancora frazionalmente ma quella reale è ben al di sopra e quando sarà finito lo stimolo fiscale rischia di esplodere letteralmente nelle tasche dei cittadini? E poi, politicamente, come si fa a smentire quasi dalla sera alla mattina – perché il tempo ora stringe davvero – mesi e mesi di narrativa, in base alla quale tutto era perfetto, un tripudio di unicorni?

La risposta fa riferimento diretto alla frase con cui ho iniziato l’articolo e si sostanzia in questi due grafici: il primo ci mostra, alla faccia dell’isolazionismo rispetto ai guai del mondo, quale sia stato uno dei grandi driver del Pil statunitense sotto Trump, ovvero il vecchio caro warfare, delizia del complesso bellico-industriale che regge i fili di quelle élites che l’inquilino della Casa Bianca millanta di combattere in nome del sovranismo. Il secondo, invece, ci mostra come il rallentamento degli ordinativi industriali Usa registrato a settembre – +0,7% su base mensile contro il +2,6% su base mensile di agosto – sia tutto da addebitarsi al crollo del 14,5% dei nuovi ordini legati proprio al comparto difesa.

Insomma, Wall Street senza bolla da Banca centrale non sopravvive e l’economia senza warfare, al netto della guerra commerciale con la Cina, è stagnante o poco più. Cosa dite, se un’esplosione controllata dei mercati risultasse troppo rischiosa, in chiave di moral suasion emergenziale verso la Federal Reserve per bloccare l’aumento del costo del denaro fin dal prossimo dicembre, quale strada imboccherà l’America per spostare ancora un po’ in avanti l’ineluttabile appuntamento con la recessione ufficiale? Bravi, la guerra. Quella vera. D’altronde, di teatri che si prestano a un precipitare della crisi, al mondo oggi ce ne sono a bizzeffe, c’è solo l’imbarazzo della scelta. L’unica differenza sarà l’intensità: niente schermaglie o guerriglia, niente terrorismo e raid mirati. Occorre il moltiplicatore del Pil al suo massimo, stile Vietnam. Occorre l’orrore conradiano. Oppure, un miracolo che faccia rimettere in moto la stamperia cinese e poi, a seguire, tutte le altre. Comunque sia, siamo a un bivio. Di quelli davvero pericolosi.

E cominceranno subito, da domani, quando saranno noti i risultati delle elezioni di mid-term. E chi di dovere si metterà al lavoro. Con le carte finalmente sul tavolo da gioco.