Il risveglio economico del Mezzogiorno, che si è registrato negli ultimi tre anni e che ora rischia, in questa stagione di incertezza, una brusca frenata, va accompagnato e incoraggiato perché fa bene a tutto il Paese, anche perché l’integrazione con il Centro-Nord è molto forte, esiste molto più nei fatti che nelle valutazioni astratte, con benefici reciproci per entrambe le aree. E la stessa preoccupazione deve valere anche per gli aspetti sociali: il nodo delle diseguaglianze e delle autonomie differenziate presenti nel Mezzogiorno deve essere sciolto. Questi temi saranno affrontati oggi, a partire dalle ore 10, presso la Sala della Regina della Camera, in occasione della presentazione del Rapporto Svimez 2018. L’economia e la società del Mezzogiorno”. Che fotografia emerge del Sud? Quali sono le dinamiche in atto? E a quali rischi va incontro il Mezzogiorno? Ci sono possibili ricette per superare queste derive? Lo abbiamo chiesto ad Amedeo Lepore, per anni assessore alle Attività produttive della Regione Campania e oggi professore di Storia economica all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”.
Partiamo dal Rapporto, di cui sono state fornite alcune anticipazioni ad agosto. Che cosa emerge?
Il Rapporto Svimez offre un’analisi integrata delle dinamiche economiche e sociali del Mezzogiorno, che sono come le due grandi facce di quest’area. Sul fronte economico il rapporto approfondisce alcuni temi, dai settori produttivi al mercato del lavoro, all’interdipendenza tra Sud e Nord con i reciproci effetti benefici tra le due aree. Sul fronte sociale, invece, si esaminano le diseguaglianze e i diritti di cittadinanza, la scuola, l’offerta di servizi. Poi c’è una parte propositiva, di cui si discuterà oggi, sulle politiche di coesione, sugli aspetti strutturali del sistema produttivo meridionale, sulle politiche industriali, sulle dinamiche degli aiuti alle imprese, sulle politiche infrastrutturali, sulla logistica e sull’internazionalizzazione. Infine, uno sguardo all’industria culturale e creativa e al non profit, fenomeno in continua crescita e con un’evoluzione sempre più plurale. Insomma, un rapporto molto corposo.
Partiamo dall’economia, che presenta luci e ombre.
Le luci sono legate soprattutto al risveglio del Mezzogiorno negli ultimi tre anni. Le ombre invece sono dovute a incertezze sulle possibilità di sviluppo nei prossimi anni, perché si richiede una maggiore concentrazione di risorse e di iniziative soprattutto per le politiche di investimento. Finora il Mezzogiorno ha proseguito sulla scia di una ripresa, sia pure non particolarmente accentuata, ma in questa stagione di incertezza questo risveglio può andare incontro ad alcuni rischi.
Quali?
L’Italia, come la Grecia, ha avuto una ripresa limitata rispetto agli altri paesi Ue, che hanno invece raggiunto i livelli pre-crisi. Il Sud, in questi tre anni, è cresciuto con maggiore intensità rispetto al Centro-Nord, però restano ancora limiti strutturali da affrontare che, se non presi di petto, rischiano di condurre a una frenata. Le politiche da assumere devono tenere conto di una forte disomogeneità nella velocità di ripresa delle regioni. Se per esempio la Campania ha fatto registrare una crescita cumulata 2015-2017 di 5 punti percentuali, l’Abruzzo ha segnato solo un +1,7% e la Sicilia un +2,4%.
E il Mezzogiorno nel suo complesso?
Il tasso di crescita annuale cumulato in termini reali del Mezzogiorno è cresciuto, nel triennio 2015-2017, del 3,7% – dato molto interessante – rispetto al +3,3% del Centro-Nord. Ma se guardiamo al decennio della crisi, il Sud ha perso il 10% e il Centro-Nord il 4%, il che significa che questo risveglio deve essere rafforzato. Ricordiamo che la Ue nello stesso triennio è cresciuta del 6,9% e negli anni della crisi dell’8,4%. E’ evidente come l’economia italiana, nel suo complesso, cioè Nord e Sud insieme, debba compiere un ulteriore sforzo per recuperare un livello di competitività con gli altri Paesi europei.
Qual è lo stato di salute dell’industria del Sud?
Qui registriamo il dato più positivo. L’industria in senso stretto nel Mezzogiorno, che aveva perso molto nel periodo della crisi, sempre nell’ultimo triennio è cresciuta quasi del 18% contro il +9,4% del Centro-Nord. Un altro dato significativo, che conforta il ruolo delle politiche industriali, e dove gli investimenti sono stati la componente più dinamica della domanda interna. Ecco perché i dati più recenti dell’Istat sul trimestre di stagnazione dell’attività industriale del nostro Paese devono indurci a una preoccupazione. Proprio perché la componente manifatturiera, anche del mezzogiorno, è stata molto potente.
E i consumi?
Nel Sud sono cresciuti più debolmente rispetto al Nord, mentre sono calati i consumi della Pubblica amministrazione.
Quali rischi si corrono con la possibile frenata in arrivo?
Il Pil del Sud, senza una spinta ulteriore che può essere data solo dagli investimenti e dall’industria, nel 2019 potrebbe scendere, dal +1% di quest’anno, al +0,7%, sotto di quasi mezzo punto rispetto alla crescita del Nord, mentre il Centro-Nord potrebbe crescere di mezzo punto in più del Mezzogiorno.
Gli investimenti sono così decisivi?
Se gli investimenti pubblici nel Sud crescessero alla stessa velocità del 2010, non vi sarebbe questo gap, cioè tutto il Paese crescerebbe allo stesso ritmo. Se gli investimenti pubblici raggiungessero lo stesso livello del 2010, pari a 4,5 miliardi, il Sud potrebbe garantire una forte propensione alla ripresa dell’intero Paese, perché l’interdipendenza tra Nord e Sud è molto forte. Se frena il Sud, non perde solo il Nord, ma perde tutta l’Italia. Basti pensare che la domanda interna per consumi e investimenti del Sud – ennesimo dato molto importante – attiva circa il 14% del Pil del Centro-Nord, che nel 2017 vale, a prezzi correnti, ben 186 miliardi.
Quali sono gli aspetti più interessanti che emergono dal Rapporto sul versante sociale?
I flussi di immigrazione dal Sud al Nord si sono intensificati: dal 2012 al 2016 il saldo negativo è pari a 783mila unità, di cui 220mila laureati.
Un dato molto negativo, non crede?
Premesso che le capacità di assorbimento del Sud devono essere potenziate e che questa emorragia va contrastata, il dato positivo è che il sistema formativo del Mezzogiorno funziona: i laureati del Sud sono appetibili per le imprese. Ma vorrei sottolineare un altro elemento innovativo, che pure non è presente nel Rapporto.
Quale?
Penso ad alcune esperienze per far crescere nuovi talenti che riguardano ricerca e innovazione e che si stanno impiantando nell’area della Campania, a Napoli in particolare, Apple e Cisco su tutte, ma non solo. Per la Cisco l’area di Napoli è la più importante in termini di risorse umane vocate all’innovazione, mentre quest’anno, nell’ultima call per la formazione dei giovani nell’Accademia della Apple, se il 60% delle richieste sono arrivate da italiani, il restante 40% riguarda giovani di altri Paesi del resto del mondo. Un segnale chiaro di come si stia dispiegando nel mezzogiorno una forza attrattiva molto significativa.
L’occupazione cresce, ma è ancora debole.
Nel Mezzogiorno l’occupazione è ancora inferiore di 310mila unità rispetto al 2008. Con la crisi si erano persi più di 600mila posti di lavoro, ma nell’ultimo triennio registriamo un dato tendenziale di inversione che, se fosse sostenuto, potrebbe dare risultati migliori: nel Sud si è creata occupazione addizionale nell’industria pari a oltre 300mila unità, secondo un check up di Confindustria-Srm. Più di 300mila nuovi occupati, di cui 126mila solo in Campania, negli ultimi tre anni nella manifattura meridionale con un recupero della metà del divario che si era creato negli anni di crisi. Certo, la crisi occupazionale pesa ancora gravemente, in particolare il dualismo generazionale.
In che senso?
Nel Sud la struttura occupazionale sta invecchiando, c’è una divisione sempre più marcata tra i giovani, che hanno un’età sempre più avanzata e rischiano di essere ai margini del mercato del lavoro, e i lavoratori a fine carriera, indotti a ritardare sempre di più l’uscita per il pensionamento. Il tasso di occupazione è sceso dal 35% del 2008 al 28% del 2017, cioè solo un giovane su quattro trova lavoro. A dimostrazione che la questione sociale è ancora aperta nel Mezzogiorno, tanto che abbiamo un ampliamento del disagio sociale: negli ultimi anni si contano più famiglie povere, anche quando è presente un occupato al loro interno.
Il Sud sconta anche una certa inefficienza dei servizi.
Sì, resta una debolezza di fondo nella rete dei servizi sociali, soprattutto riguardo ai bambini, agli anziani e alle persone non autosufficienti, il che prefigura una sorta di cittadinanza limitata. E’ un dato che riguarda tutta la società meridionale e segnala che qualcosa si è bloccato. Occorre una fortissima inversione di tendenza per sanare questa profonda differenza, questa regressione nei livelli dei servizi nel Sud, come si nota guardando ai Lea, all’emigrazione sanitaria o all’indice sintetico delle performance delle pubbliche amministrazioni. Qui basta un dato: se la regione più performante, il Trentino Alto Adige, vale 100, la Campania è a 61, la Sardegna a 60 e le altre regioni meridionali galleggiano intorno a 40. Il tema della dotazione dei servizi è prioritario e riguarda la Pubblica amministrazione nel suo complesso. Al tema dell’autonomia differenziata bisogna prestare molta attenzione.
Quali sono, secondo lei, le possibili policy necessarie per contrastare queste derive, risolvere queste dicotomie e per modernizzare istituzioni e servizi?
Innanzitutto, seguire la logica del ciascuno per sé non va bene, occorre affrontare questi temi in chiave prospettica complessiva per l’intero Paese. E io individuo quattro questioni fondamentali.
La prima?
Sicuramente le politiche industriali e logistiche, in una prospettiva in cui il Mezzogiorno deve assumere una funzione, non retorica ma concreta, di proiezione dell’Italia verso una dimensione euro-mediterranea. Lo si può fare attraverso le Zes (Zone economiche speciali), se decollano: una loro integrazione è un’opportunità per tutto il Paese. Con le Zes si possono sperimentare quelle semplificazioni coraggiose per le imprese che poi si potrebbero applicare a tutto il Paese, aiutando così ad attrarre le imprese e ad effettuare investimenti in queste aree. Le Zes possono dare una spinta in avanti positiva, mettendo insieme industria e logistica. In più andrebbero confermati alcuni strumenti virtuosi: il credito d’imposta per gli investimenti, che ha prodotto ottimi risultati; i Contratti e gli Accordi di sviluppo, molto efficaci per lo sviluppo del Mezzogiorno; la decontribuzione, ma solo se duratura. Una riduzione più intensa del cuneo fiscale, che potrebbe essere sperimentata in alcune aree del Mezzogiorno, potrebbe determinare un forte incentivo agli investimenti, sollevando imprese e lavoratori da costi impropri. Anche credito e finanza sono temi importanti.
Le altre ricette?
La valorizzazione delle competenze del capitale umano, che riguardano la ricerca, l’innovazione, il trasferimento tecnologico nelle imprese. C’è bisogno, oltre che di Centri di competenza per l’Industria 4.0, di qualcosa di più diretto che consenta di unire l’esperienza della grande impresa con quella di un giovane che vuole avviare una start up o fare autoimprenditorialità. La terza questione dirimente riguarda il potenziamento e miglioramento dei servizi. Infine, il rafforzamento delle politiche sociali, dove il non profit produttivo può giocare un ruolo fondamentale, perché la rete della sussidiarietà è molto importante. E ci sono tanti esempi a cui guardare. E soprattutto bisogna distinguere tra le politiche di accompagnamento al lavoro e le misure di mera assistenza: per alleviare le sofferenze dei ceti più deboli sarebbero più virtuose le prime rispetto alle seconde.
(Marco Biscella)