Mettiamo qualche numero in prospettiva, tanto per fare la tara alla situazione. Già, perché mentre qui ci trastulliamo allegramente con il 2,4% o il 2,04% di deficit, altrove si giganteggia. Si sale in cattedra. Sapete a quanto è ammontato il deficit statunitense nel mese di novembre? Una sciocchezza come 205 miliardi di dollari, il 48% in più dello stesso mese del 2017 e il dato maggiore in assoluto per l’undiceimo mese dell’anno da quando viene tracciata la serie storica. Di più, se prendiamo il dato relativo ai primi due mesi del nuovo anno fiscale, iniziato negli Usa il 1 ottobre, ecco che il deficit presenta un conto di 305,4 miliardi, in aumento del 50% rispetto ai 201,8 miliardi dello stesso periodo del 2017.



Ora guardate questo grafico, il quale ci mostra che con la piega presa dall’amministrazione Trump, l’anno prossimo gli Usa si troveranno a dover pagare ogni singolo giorno dell’anno qualcosa come 1,5 miliardi di dollari di interesse, essendo la spesa annuale stimata attorno ai 625 miliardi di dollari. Ogni singolo giorno, 1,5 miliardi di spese per interessi.



Ora guardate questo altro grafico, il quale compara le spese per interessi nei Paesi del G7: certo, siamo lontani dal livello degli Stati Uniti, ma siamo tre volte tanto l’ammontare del terzo in classifica, la Francia in piena rivolta sociale e costretta a chiedere la deroga dell’Ue rispetto al vincolo del 3% proprio sul deficit. Il perché la Francia possa sforare – e non quest’anno per la retromarcia strategica di Macron sull’ecotassa e sull’aumento delle imposte, bensì da sette anni a questa parte – sta tutto qui, in questo dato.

In molti, cercando una motivazione economica e non un mero privilegio politico da figli e figliastri dietro alla differenza di trattamento fra Parigi e Roma in sede di valutazione delle manovre finanziarie (scordando che quella francese aveva già ottenuto il via libera, chiedendo quindi ora una deroga d’emergenza, mentre la nostra è ancora sotto valutazione e a forte rischio di bocciatura, almeno nella versione originale) scomodavano lo spread, ovvero il differenziale fra i nostri Btp e il Bund tedesco con quello fra Oat francesi e pari durata teutonici. Guardate questo terzo grafico: nonostante la tensione alle stelle, il differenziale fra carta transalpina e di Berlino è sì arrivato a inizio settimana al massimo dal voto presidenziale del 2017, ovvero quando si temeva la vittoria di Marine Le Pen e l’onda nera sull’Eliseo, ma mettiamo la questione in prospettiva. Quel massimo significa 50 punti base. Non 261 come raggiunto da noi ieri all’ora di pranzo, fra scene quasi di giubilo per quel calo miracoloso.



Avete capito perché, al netto dell’ovvio utilizzo del nostro Paese come elemento di destabilizzazione comoda a tutti, non possiamo pretendere che il mercato ci tratti come la Francia, nonostante la ratio debito/Pil sia ormai al 100% anche per Parigi e il loro indebitamento privato in traiettoria pericolosamente rialzista? Ovviamente, il mercato vive anche di percezioni. E, purtroppo, di stereotipi. I quali, piaccia o meno, pesano. Fra noi e la Francia, ad esempio, lo stereotipo della corruzione endemica, dell’arretratezza burocratica e dell’evasione fiscale cronica vale almeno 100 punti di spread di percezione, in partenza. A bocce ferme.

Giusto? Sbagliato? Io so una cosa sola e chiunque di voi sia in buonafede non può che pensarla come me: se anche questo stereotipo appare gonfiato, non è falso. E, soprattutto, come Paese non stiamo facendo nulla per eliminarlo. Anzi. Qualcuno, su queste pagine, faceva recentemente notare come proprio in Francia e in Spagna, le questioni relative alle manovre economiche e alla magagne che le accompagnano sempre, fossero relegate alle pagine interne di economia o di politica dei quotidiani, non perennemente in prima pagina, autosputtanandosi ed esponendosi al pubblico ludibrio degli investitori internazionali. La vecchia logica del “i panni sporchi si lavano in famiglia”. E da un certo punto di vista, è vero: autolesionismo ed esterofilia sono due brutti difetti dell’italiano medio, stampa in testa.

Però, signori, quando avete fatto l’ultima volta la fila a una Asl? Quando avete avuto bisogno di fare un esame diagnostico o un documento all’anagrafe o al catasto o in tribunale? Quando avete dovuto passare ore al telefono o a scrivere e-mail per disdire un semplice abbonamento telefonico per passare a un altro operatore, in ossequio alla concorrenza tutelata per legge? Credete che in Francia, in Germania o anche solo in Spagna ci siano le trafile che dobbiamo patire, come tanti martiri civili, qui in Italia? E non ho citato il Nord Europa.

Bene, ora traslate questa realtà al di fuori dello schematismo da vita quotidiana di un eminente sconosciuto e privato cittadino come noi e applicatela alla vita, già complicata di suo, di un’azienda: voi, se foste straniero, verreste a fare affari in Italia? Certo, se foste dei pirati come quelli che stiamo vedendo in azione alla Pernigotti, ad esempio, sì. Visto che la giustizia civile è talmente lenta e la politica divisa e incompetente da permetterti di farti i tuoi comodi, incamerare aiuti finanziari e poi salutare tutti e ri-delocalizzare. Ma un’azienda seria, una che intende investire e sviluppare il suo business, verrebbe in un Paese dove non solo le infrastrutture sono da anni del Secondo dopoguerra praticamente ovunque da Roma in giù ma dove, soprattutto, una parte sostanziale del governo pare contraria a qualsiasi opera pubblica legata allo sviluppo infrastrutturale? Pensate che questo non pesi sullo spread? E pensate che non pesi nei giudizi della Commissione Ue, visto che al netto di questo immobilismo e cronico deficit di legalità e competitività, abbiamo un debito pubblico secondo solo al Giappone – la Grecia, scusate ma nemmeno la calcolo fra i Paesi sviluppati dal punto di vista del business – e in traiettoria sempre crescente, nonostante promesse e raccomandazioni di riduzione?

Signori, io non so come finirà la querelle di Bruxelles, spero ovviamente bene. Il che significa senza l’apertura della procedura di infrazione, ma poco cambia, nei fatti e nella percezione. Se anche fai deficit inferiore di uno 0,4% – anche dello 0,6% -, ma dopo hai un mercato del lavoro ingessato e pachidermico, roba da anni Settanta e fabbrica toyotista, a cui l’unica risposta che intendi fornire è il “navigator” da affiancare ai percettori di reddito di cittadinanza, capite da soli che lo spread sale di default. Appena sente quella formula, prendi 50 punti base. E ringraziamo Mario Draghi che attraverso la forzatura del criterio di re-investimento di capitale dei bond acquistati ci schermerà e non poco dal rischio spread per almeno tre quarti del 2019: altrimenti, erano dolori sul serio. E dolori immediati, non le baruffe goldoniane con Moscovici e Juncker. Dolori di mercato, dolori che si riverberano immediatamente sul sistema bancario e quindi sul rischio di credit crunch rispetto a prestiti, fidi e mutui.

Noi non siamo l’America: non abbiamo la Fed, né il dollaro, né i loro numeri. Nè, tantomeno, la capacità di dettare l’agenda al mondo, scatenando guerre e crisi diplomatiche quando occorre rimettere un po’ in pista il moltiplicatore bellico del Pil. Non siamo l’America. La quale, fra l’altro, comincia a capire essa stessa che certe ricette hanno il fiato corto, se è vero come è vero che si parla ormai chiaramente di recessione anticipata, se Donald Trump ha smesso di postare tweets relativi ai nuovi record di Wall Street e se occorre mantenere viva e pulsante la crisi diplomatica con la Cina sul commercio per garantirsi cortine fumogene propagandistiche al progressivo calo del potere di controbilanciamento dello shock fiscale rispetto all’erosione del potere d’acquisto di salari che, alla prova dei fatti e dell’inflazione reale, in termini assoluti sono piantati al palo ormai da anni. Trump o non Trump.

Signori, serve prima di tutto realismo. E un po’ di sana autocritica. Perché se la strada che qualcuno intende intraprendere per uscire dalla stagnazione è quella dei deficit statunitensi, prepariamoci pure a un bello schianto. E non dello spread, ma del Paese e della sua economia reale, carne e sangue che non a caso stanno già lanciando grida d’aiuto.