Volete fissare, riassumere, cristallizzare la cuspide ante crisi in cui ci ritroviamo, quasi senza essercene accorti? Bene, allora è inutile che io stia a spendere troppe parole. I fatti cominciano a parlare da soli, per quanto si continui ancora – sempre in maniera più disperata e raffazzonata, a dire il vero – a negare l’evidenza dei sempre più frequenti crolli azionari e obbligazionari silenziati dai grandi media, delle dinamiche macro tipicamente da fine ciclo, se non apertamente pre-recessive, dei tagli occupazionali – ancorché imbellettati con termini come “ristrutturazione” – che cozzano ontologicamente con l’idea stessa di un’economia, quella Usa, spacciata da tutti fino a non più tardi di due mesi fa come un treno inarrestabile, lanciata bomba contro l’ingiustizia avrebbe detto Francesco Guccini.
Il risultato? Eccolo, plasticamente concentrato in due immagini. La prima ci mostra come quella susseguitasi nell’anno che sta per concludersi sia stata la striscia di dati macro negativi più lunga da quando viene tracciata la serie storica. Il secondo, invece, ci dice come l’ultimo dato flash del PMI statunitense certifichi un netto rallentamento dell’economia d’Oltreoceano, visto che l’attività di business sta espandendosi al ritmo più lento dall’ultimo anno e mezzo e che, nonostante l’intero quarto trimestre sia in area di crescita del 2,5%, il mese di dicembre sembra destinato a chiudersi al 2%. Forse, 1,9%.
Direte voi, grasso che cola rispetto alle crescite anemiche a cui ci ha abituato per trimestri l’eurozona e addirittura ai dati di contrazione, anche tedesco, già del terzo trimestre. Vero, peccato che come vi mostravo nell’articolo di sabato scorso, per ottenere questo miracolo dal fiato corto, Donald Trump abbia fatto lievitare il deficit del Paese su trend completamente fuori controllo. E che, tra parentesi, a beneficiare maggiormente dello shock fiscale che ha generato il “miracoloso” Pil al 4,2% del secondo trimestre di quest’anno siano stati i soliti noti, grandi corporations e il loro braccio armato, Wall Street. E a dirlo, signori, non è il sottoscritto per partito preso o postura ideologica, è stato lo stesso Presidente Usa non più tardi del giorno precedente al voto di medio termine dello scorso novembre, quando ammise – in perfetto stile di mea culpa pre-elettorale – che fino a quel momento la sua amministrazione aveva in effetti fatto poco per la classe media, tanto da promettere solennemente un secondo shock fiscale ad hoc per il suo bacino ideologico di riferimento (o, almeno, così pensano gli elettori).
Peccato che, nella più classica delle riproposizioni dello schema Ponzi, un secondo shock fiscale può essere innescato soltanto da nuovo deficit. Difficile, però, poterlo porre in essere con le misure di stimolo del precedente che già perdono vigore (con almeno un trimestre di anticipo sui calcoli) e Wall Street che si schianta a ogni piè sospinto (ma nessuno deve accorgersene), perché i buybacks cominciano a calare, visto che i soldi per finanziarli non li garantisce più la Fed a costo zero e quelli rimpatriati grazie all’abbassamento record delle tasse o sono finito o sono blindati a bilancio. Anzi, alzando i tassi la Federal Reserve ha reso quella pratica troppo onerosa per i conti delle aziende. Insomma, il giochino si è rotto.
Solitamente, però, lo schema Ponzi dura un po’ di più prima di lasciare con il deretano per terra tutti i gonzi che ci hanno abboccato, si arriva almeno alla sesta o settimana ondata di investitori, prima che la liquidità si prosciughi e non ci siano più soldi per nessuno (e il Ponzi di turno finisca in galera o su una spiaggia di un Paese senza estradizione). Qui siamo passati dalle stelle alle stalle in un men che non si dica. E, attenzione, infilandoci in mezzo anche l’elemento di strumentale destabilizzazione della guerra commerciale con la Cina, la quale di fatto ha fornito una cortina fumogena di propaganda e un alibi politico-strutturale all’indebolimento dell’economia e dei mercati nel passaggio fondamentale tra estate e autunno e, soprattutto, attraverso i marosi di Borsa del mese horribilis di ottobre. Insomma, alla Casa Bianca serviva arrivare indenne, realmente o tramite percezione, al voto di medio-termine. Sfangato il quale, come in effetti è accaduto, ora tutto può succedere. Anzi, deve succedere.
Perché, come avrete notate, da qualche settimana l’idea che la Fed si fermi per tutto il 2019 con il rialzo dei tassi non è più una fantasia della mente dietrologica del sottoscritto, ma viene avanzata candidamente da tutti, politici ed economisti: addirittura, Goldman Sachs ha eliminato del tutto dal tavolo la seduta del prossimo marzo come possibile market mover. E perché, a vostro modo di vedere? Perché ora si può, perché ora il vecchio trucco del far precipitare la situazione per poi incolparla di contraccolpo esogeno nei confronti di un’economia che altrimenti sarebbe scoppiata di salute è vecchio come il mondo. Ma funziona sempre. Nessuno perde la faccia, nessuno deve dare spiegazioni per previsioni rivelatesi bufale o promesse rimangiate: c’è la nuova recessione globale alle porte, i fattori dell’operazione sono cambiati. Causa di forza maggiore. E, soprattutto, estranea alla nostra volontà. E questa, intesa come Casa Bianca, sarebbe l’avanguardia contro le élites finanziarie e il paludato establishment consociativo di Washington? E vale per tutti.
Emmanuel Macron ha dovuto fare marcia indietro a livello di riforme economiche, ancorché potrebbe portare a casa il bottino principale, quello politico di disintegrazione definitiva della vecchia e tradizionale classe politica francese attraverso il proxy dei “Gilet gialli”. Theresa May non sa più come uscire dal vicolo cieco di promesse che ha rifilato a partito, elettorato e nazione intera sul Brexit, quando chiunque con un minimo di sale in zucca aveva capito fin da subito che sarebbe stato un massacro, all’atto pratico, se posto in essere a quelle condizioni. Vogliamo parlare del nostro esecutivo e della sua marcia indietro nella guerra apparentemente senza frontiere contro la Commissione Ue sulla manovra economica 2019? E la stessa Angela Merkel, quanti compromessi ha dovuto accettare negli ultimi sei mesi, quanto potere politico e di intermediazione ha perso? Tutto, praticamente. È sparita dalla scena, non potendo più reggere il peso di promesse e scelte sbagliate. Ma ora c’è la crisi, quindi tutti assolti!
Peccato che le crisi non nascano in un giorno. Né in una settimana. E nemmeno in due mesi, come vorrebbero farci credere media e istituzioni, nazionali e sovranazionali, elette o non elette. La crisi è in atto, nei numeri come nella realtà dei mercati, da almeno due anni. Facciamo uno e mezzo, voglio essere buono. È che finora si era mascherata con i rialzi di Borsa frutto di ingegneria finanziaria, algoritmi, Banche centrali con denaro a costo zero e shock fiscali a deficit: tolti i supporti esterni, i mercati non sono così sovra-valutati nei multipli di utile e in bolla da indebitamento sul leverage – su ogni singola asset-class – dal 2007. Ricordate cos’è accaduto dopo? Riguardate il primo grafico: per tutto il 2018 si sono susseguite serie di dati macro, a livello globale, una più negativa dell’altra. Non si sono concentrate negli ultimi due mesi, spuntando come funghi, a causa di un evento traumatico catalizzante, un classico cigno nero come può essere stato, ad esempio, l’11 settembre. O il crollo Lehman, ancorché anche quello sia stato frutto di pratiche criminali a livello finanziario durate per almeno due, tre anni, nel silenzio generale di media, politica e agenzie di rating. Qui sappiamo da gennaio che qualcosa scricchiolava a livello sistemico.
Oggi, guarda caso, la Cina ammette che una voce fondamentale come le vendite al dettaglio sia scesa nell’ultima rilevazione di novembre addirittura al livello del 2003: signori, parliamo della stessa Cina che con la sovra-produzione ha tenuto in piedi le speranze di crescita del mondo per almeno un decennio. Ora, si è piantata. Da quando, dal mese scorso forse? No, da quando la Pboc ha smesso di fornire liquidità con il badile, tentando così di sgonfiare in maniera controllata la bolla del sistema bancario ombra che ha garantito quell’espansione dell’economia così record (ma anche dell’indebitamento, ad ogni livello), casualmente la Cina ha smesso di essere il turbo del mondo e si è tramutata in un normalissimo diesel. Perché non fatevi fregare dal fatto che cresca ancora del 6%: al netto della bolla di debito, quel dato depurato dalle distorsioni è molto vicino al 2% americano. Massimo, 2,5%. Una cosa è il reale, un’altra il nominale.
Quanti articoli, ultimamente addirittura dei focus in due puntate, ho dedicato alla Cina e al pericolo potenziale che la sua economia rappresentava per il mondo, al netto della narrativa ufficiale? Dubito di essere io un genio da Nobel e gli altri degli idioti: è che io non ho padroni o padrini a cui rendere conto, né inserzionisti da fare felici con racconti da mondo degli unicorni. Molti altri, invece, sì. E vale a livello di informazione, come di politica. In Italia come negli Usa, come in Francia. Lo sapete però qual è uno dei grandi risultati che gli Stati Uniti hanno ottenuto dall’enorme pantomima in atto? Socializzare le perdite, rendere hot, trendy, quasi un’occasione imperdibile il deficit. Come? È presto detto. L’aumento dei tassi della Fed, totalmente autolesionistico al ritmo compiuto e in relazione ai reali dati macro dell’economia statunitense e globale, ha ottenuto però due sviluppi: far aumentare il rendimento dei Treasuries, rendendoli appetibili e percepibili come meno rischiosi di una Borsa che manda segnali sinistri e instillare contemporaneamente il dubbio che l’economia “di mercato” stia rallentando, senza seminare panico ma accompagnando verso lidi più sicuri, beni rifugio.
Il risultato? Eccolo qua, un capolavoro: venerdì scorso, i contribuenti americani detenevano per la prima volta dal 2010 più Treasuries della Fed, 2,28 triliardi di controvalore rispetto a 2,24 triliardi. Per la modica cifra di un aumento di rendimento pari a 83 punti base nel corso dell’anno, la Fed ha scaricato agli americani i titoli di quel debito che li renderà schiavi per le prossime generazioni, oltretutto facendogli credere di aver fatto un affarone e rendendoli felici! E poi, proprio sotto Natale! Quindi, la Banca centrale Usa non solo ha oggi una valida, solida e patriottica alternativa a detentori esteri, ma anche un cuscinetto di ammortizzazione, in tempi di deficit sempre crescente, all’obbligo di ricominciare a stampare in tempi brevi. Insomma, ha guadagnato tempo. Il bene più prezioso di tutti, quando davanti c’è una nuova crisi in arrivo. Meditate gente.