La notizia dell’aggiudicazione dei lavori per la ricostruzione del ponte di Genova ha scalato le prime pagine. Secondo la ricostruzione del Corriere della Sera, la scelta finale non era quella decisa dal commissario Bucci e forse nel processo decisionale sono entrate valutazioni di “sistema”. A proposito di sistema, negli ultimi trimestri il settore delle costruzioni italiano ha dato segnali di fortissima difficolta; il settore è sicuramente un’eccellenza a livello mondiale con alcune delle più iconiche opere infrastrutturali del globo pensate e costruite da menti e mani italiane. L’expertise italiana probabilmente non è estranea a un territorio molto particolare in cui per fare una ferrovia o un’autostrada bisogna bucare montagne e costruire ponti con una frequenza che non ha paragoni nel resto d’Europa oppure perché il mix di montagne, laghi e fiumi ci ha costretti a imparare a fare le dighe e infatti nessuno al mondo ne ha costruite più di noi (in Italia e fuori).



Eppure negli ultimi mesi molte aziende rilevanti e di prestigio sono entrate in situazione di stress finanziario: Condotte, Cmc Ravenna, Astaldi, Trevi e anche Salini negli ultimi giorni ha dato qualche grattacapo come sembra indicare la caduta dei prezzi delle obbligazioni. Un fenomeno di queste dimensioni indica delle componenti sistemiche che trascendano i singoli errori manageriali. I problemi sistemici di una crisi che ha messo in ginocchio un settore strategico per l’economia italiana e che occupa migliaia di persone tra cui moltissimi ingegneri sono sostanzialmente due.



Il primo è una serie di norme dalle procedure di aggiudicazione alla fase dei lavori che ha non solo dilatato moltissimo i tempi che intercorrono tra il finanziamento e la cantierizzazione dell’opera, ma che ha reso la fase esecutiva un campo minato di ricorsi, procedure, riaperture delle gare in caso di fallimento di un’impresa del consorzio, ecc. L’impressione è che l’obiettivo di “evitare mangiatoie”, di “prevenire illeciti” si sia spinto così in avanti da produrre una situazione in cui l’unico risultato possibile è non fare nulla perché nei fatti è l’unica opzione in cui, non facendo niente, non si commette alcun illecito, né alcun errore; la burocrazia è terrorizzata ed evita come la peste qualsiasi decisione rifugiandosi dietro il rispetto di norme che nei fatti uccide i progetti.



A livelli mediatici il contesto è quello in cui se si decide di fare una ferrovia, un’autostrada o una metropolitana nuova significa sicuramente che l’idea è stata partorita da qualche gruppo del malaffare. Sintetizzando ancora più brutalmente “è la mafia che vuole quell’opera” e quindi chiunque la voglia in qualche modo ne è complice. Pare che per l’ultimo progetto di prolungamento di una metropolitana milanese, incredibilmente voluta da tutti, ci possano volere sei/sette anni anche se fosse finanziata oggi. Il cambiamento culturale che serve sarà difficilissimo in un clima che è ancora molto “giustizialista” e in cui l’imprenditore è innanzitutto una sorta di truffatore in potenza.

Il secondo problema è che il mercato italiano è sostanzialmente scomparso dopo la crisi del 2008 perché le risorse destinate alle opere si sono prosciugate. Tutti i grandi gruppi europei, in particolare quelli spagnoli e francesi, hanno come mercato principale quello del proprio Paese, dove tutto ovviamente è più facile. Le nostre imprese si sono trovate nella situazione di dover andare in mercati rischiosi per sostituire un mercato che improvvisamente è venuto meno. Ma fare ponti e dighe non è la stessa cosa che vendere scarpe o maglioni. È un mestiere incredibilmente complesso, difficile e politico e non avere abbastanza lavori domestici che possano dare un flusso stabile e relativamente poco rischioso di ricavi è molto, molto complicato. I gruppi francesi non hanno avuto questo shock e quel mercato, come quello spagnolo, rimangono chiusissimi. Il mercato tedesco non c’è perché i tedeschi non spendono nulla, ma questo è un altro capitolo di un’altra storia.