La fine dell’anno rappresenta nel mondo finanziario l’occasione per tirare le somme e stabilire un bilancio su quanto successo nell’anno e quanto ci si può attendere per l’esercizio successivo. Gradualmente si presentano sempre più fitte le ipotesi formulate da previsori, che spaziano dagli economisti per coinvolgere gli strategist e concludere con gli esperti di mercati finanziari all’estremo meno teorico.
Il 2018 è un anno che chiude mostrando risultati positivi per le economie sviluppate e una buona ripresa per quelle in via di sviluppo (i dati del Fondo monetario internazionale, aggiornati a luglio 2018, confermano le attese espresse dalla maggior parte degli interpellati a inizio anno). Le prospettive per il 2019, indicate sempre dalla stessa fonte, sono in ulteriore crescita, anche se moderata al ribasso. La reazione della popolazione interessata, attraverso il voto (in Usa, Germania e Italia) o attraverso manifestazioni di strada (Gilet Jaunes in Francia), non è assolutamente in linea con quanto gli accademici riassumono. La distanza tra percezione degli analisti sociali ed economici rispetto alla percezione dalla vita reale chiaramente comunicata dalla parte di popolazione più vicina alla strada appare nettamente crescente (proviamo solamente a pensare a riunioni quali il World Economic Forum e ai suoi partecipanti e confrontarli con gli impiegati di una grande banca, ben consci dell’instabililtà del loro posto di lavoro, il cui futuro spesso dipende proprio dalle intenzioni di un collega che sale una volta all’anno a Davos a respirare quell’aria pura che lo illumina sulle scelte che aumentano il benessere della comunità che anche da lui dipende).
In coincidenza con questi consuntivi, e previsioni positive, assistiamo al comportamento di mercati finanziari che ci offrono risultati negativi su quasi tutte le asset class. Le migliori professionalità del mondo nel campo (non escluso il dipartimento economico della Bce) sono coinvolte in questa inspiegabile incapacità di produrre risultati non dico soddisfacenti, ma almeno positivi in un anno che ne ha avuti numerosi da mostrare.
Per provare a capire cosa sta succedendo, forse dovremmo accettare che stiamo vivendo il decimo anno di una gestione straordinaria della realtà rappresentata dai mercati finanziari, interessati da comportamenti che nemmeno la teoria aveva avuto il coraggio di descrivere nei libri di testo: in primis, con molta probabilità, l’utilizzo di tassi nominali negativi, la presenza di tassi d’inflazione prossimi a zero o inferiori a zero per periodi prolungati, la permanenza e il continuo sviluppo di un’innovazione tecnologica e di logistica produttiva (aiutata dai fenomeni collegati alla tanto discussa “globalizzazione”) con effetti innegabili sul costo finale dei prodotti di consumo.
Quanto appena elencato in modo non esaustivo, si accompagna al diffuso, e ancora non così ben percepito, invecchiamento della popolazione, più o meno accentuato presso alcune realtà geografiche piuttosto che altre (secondo alcuni studi macro-economici, l’età media della popolazione non è indifferente al livello prevalente di inflazione osservata e attesa).
La soddisfazione di una domanda di consumo finale decrescente avviene in un incremento naturale di competitività sofferto da un numero di operatori dato, fronteggiante un numero di consumatori demograficamente calante: osservazione sufficiente a capire il perché di una naturale contrazione dei margini di profitto degli operatori esistenti. Se a questi aggiungo il gigantismo dei nuovi operatori, che estendono a un mercato in contrazione l’applicazione di nuovi modelli distributivi (miranti quasi tutti al raggiungimento del potere del monopolista, riuscendo però, almeno nel breve termine, a offrire condizioni economiche migliorate anche per il consumatore finale), basati sull’estremizzazione nell’uso di tecniche a miglior efficienza economica, e aggiungo a una pressione concorrenziale già avviata da fattori demografici anche l’ulteriore pressione data dall’applicazione di nuove tecnologie orientate al recupero di margini di profitto attraverso una forte compressione dei costi (vedi anche la compressione ottenuta nel costo del personale utilizzato nel processo produttivo), mi avvicino alla condizione vista durante la prima rivoluzione industriale e allora riassunta nel nome Lumpenproletariat?
Forse è troppo presto per arrivare a una conclusione ferma sul punto, come anche voler vedere nella difficoltà di andamento delle Borse (dico volutamente Borse e non indici per la ricomposizione avvenuta negli stessi) gli effetti della crescente ombra di impeachment che si sta estendendo sul presidente Trump.
Nella valutazione odierna degli effetti dell’applicazione delle nuove tecnologie, che ormai iniziano a estendersi anche agli ambiti professionali, non più limitati quindi ai blue collar workers, si inizia a parlare di attività a sostegno delle parti di popolazione interessate dagli effetti indotti da questo tipo di crescita, attività che dovrebbero intervenire attraverso periodi dedicati alla riabilitazione professionale, all’aggiornamento delle conoscenze, al reindirizzo delle risorse divenute disponibili per offrire risposta a una domanda finora latente di consumo, più facilmente collegabile alle caratteristiche di una popolazione cambiata sotto il profilo demografico-strutturale (diversi livelli di esperienza, di capacità di risposta agli stimoli in termini anche di prontezza, velocità, energia profusa nella consegna del servizio al cliente). Accettazione del fatto che il cambiamento delle caratteristiche strutturali della popolazione interessa sia il lato della domanda che quello dell’offerta. Assieme all’osservazione degli effetti di una nuova struttura demografica e delle conseguenze del suo probabile diverso comportamento in termini di consumo, valutazione anche dell’aggiornamento delle priorità etico-morali che possono emergere con il cambiamento dell’età prevalente nella popolazione osservata.
Riguardando ai concetti qui ricordati, sembra si stia parlando di un futuro non così vicino e la sensazione potrebbe lasciar pensare a tempi molto lontani. Purtroppo, guardandoci attorno e accettando l’evidenza degli enormi miglioramenti già offertici dalla sola pratica medica, non possiamo non accettare che l’allungamento dell’aspettativa di vita tocca già la nostra realtà odierna, non un futuro prossimo (il maratoneta centenario di Hong Kong che ha recentemente deciso di smettere di correre, compiuti i 100 anni, con la capacità di mantenere una velocità media di 10 chilometri all’ora è una testimonianza viva di un mondo che è già cambiato).
Continuando nell’osservazione delle reazioni di piazza più evidenti e diffuse, la protesta riassunta nel nome di Gilet Jaunes, può essere letta meglio come sintomo di preoccupazione rispetto al futuro, letto negativamente, a causa di una sensazione non ben chiarita, ma riconducibile agli aspetti demografici che sopra abbiamo provato a riassumere, con il loro inevitabile impatto sociale.
La crescita della popolazione “dipendente” (cioè anziana e ammalata, popolazione nella necessità di assistenza) rende l’ambiente locale meno efficiente dal punto di vista economico-produttivo, fatto che contribuisce alla povertà materiale percepita come inevitabile per la popolazione che oggi si interroga sul proprio futuro (ripetizione del Lumpenproletariat?) e trae conclusioni che possono essere non ottimiste.
Se la correttezza delle conclusioni appare indiscutibile, si può dire altrettanto dell’attribuzione di responsabilità dell’oggetto della lamentela? La reazione delle masse, osservata e riportata dai principali media, mostra un forte dubbio sulle capacità della classe politica di contribuire positivamente a trovare una via d’uscita dalla spiacevole situazione in cui viviamo. L’indebolita credibilità delle professioni per prime deputate allo studio e comprensione dei cambiamenti che ci stanno già interessando, citata all’inizio e nominata al primo link suggerito, non tranquillizza i Gilet Jaunes che continuano a seguire il percorso di allontanamento del mondo accademico avviato a suo tempo dal movimento “Occupy Wall Street”?
Come sempre le situazioni che incorporano evidenti segni di incomprensione godono del potenziale di offrire squilibri valutativi anche di grande interesse per l’investitore che sa guardare oltre il breve periodo. Oggi, al normale rischio di mercato, sempre esistente, osservando un’evoluzione di comportamento degli attori di rilievo, ritengo rilevante aggiungere un minimo di attenzione anche al rischio regolatorio, richiamato sulla scena dalle difficoltà che proprio il mondo politico sta vivendo a causa di un elettorato meno facilmente leggibile che in passato, quindi più sfuggente anche alle più tradizionali leve di sua gestione. Se il 2019 ci si presenterà con un mondo imprenditoriale arricchito dalle migliori condizioni concorrenziali godute dalle imprese rispetto al recente passato, giustificate anche da un regolatore meno attivo, non possiamo ritenere che l’assopimento del regolatore potrà essere una nuova costante, soprattutto quando la classe governante in rinnovo in Europa e prossima al suo rinnovo negli Stati Uniti percepisce ormai con chiarezza l’essere messa in esame da una classe di elettori ancora non sufficientemente conosciuti (il peso relativo dei Millennials in confronto ai Baby boomers è destinato a segnare la scomparsa politica dei Baby boomers, che hanno già vissuto il loro momento di massimo, come Hillary Clinton pare aver ben capito).
Parte dell’evoluzione che osserveremo prossimamente, e che produrrà il suo impatto sul funzionamento delle economie globali già dal prossimo futuro sarà dettata proprio dalle caratteristiche di un nuovo attore politico, che non abbiamo ancora imparato a conoscere, pur essendosi già presentato in Estremo Oriente, nella vecchia Europa, negli Stati Uniti e nel Medio Oriente.