La gelata della crescita è arrivata ancor prima di quanto previsto dai più pessimisti. I dati Istat segnalano che il Prodotto interno lordo del terzo trimestre si è tinto di rosso (-0,1%) rispetto al dato precedente ed è aumentato solo dello 0,7% rispetto al terzo trimestre del 2017. La stima precedente della variazione congiunturale del Pil diffusa il 30 ottobre 2018 era risultata nulla, mentre quella tendenziale era pari a +0,8%.
Si tratta del primo calo dell’attività economica dopo un periodo di espansione protrattosi per 14 trimestri, ovvero da fine 2014. La flessione, che segue una fase di progressivo rallentamento della crescita, è dovuta essenzialmente alla contrazione della domanda interna, causata dal sovrapporsi di un lieve calo dei consumi e di un netto calo degli investimenti, mentre l’incremento delle esportazioni, pur contenuto, ha favorito la tenuta della componente estera. In termini geografici i dati segnalano che il calo si è concentrato nelle regioni del Nord, mentre il Centro e il Sud vantano un dato, seppur di poco, positivo. Si annulla così il recupero di reddito del Nord Italia rispetto al picco pre-crisi: dai numero del 2007, il Settentrione dista ancora 4 punti. Meglio del Sud, che accusa un divario di nove punti.
Ma è una consolazione ben magra: se perde colpi la locomotiva, il convoglio prima o poi si fermerà. Soprattutto se a frenare sono gli investimenti in calo reale di 1,1% nel trimestre (contro il -0,1% dei consumi finali), un dato riconducibile in modo rilevante alla componente “mezzi di trasporto”. È possibile che il fenomeno si possa ricondurre in parte al ritardo dei nuovi test sulle emissioni dei veicoli, come è successo in Germania. Ma, a dar retta agli indici Pmi, è legittimo sospettare che per l’Italia i guasti siano più profondi sia per quel che riguarda la manifattura che per i servizi.
Torna a salire intanto anche il dato sulla disoccupazione. E cadono giustamente nell’oblio i moltiplicatori invocati dal ministro Tria per giustificare la prospettiva di un boom dell’economia prossimo venturo generato dall’aumento della fiducia e degli investimenti Ce n’è abbastanza per alimentare un nascente “partito del Pil” partecipato dai produttori. Anche perché i segnali lanciati dalla finanza attraverso l’aumento dello spread si stanno trasferendo rapidamente all’economia reale.
Frenano gli acquisti dall’estero sia sul debito pubblico che sul resto della carta italiana, acquistata, ma non sempre, a prezzi crescenti. Il tutto senza che, fino a questo momento, sia stata presa una sola misura espansiva in contrasto con le regole difese da Bruxelles. Insomma, la situazione si è fatta seria, come hanno notato anche i leader della maggioranza giallo-verde che, in occasione del vertice di Buenos Aires, hanno mandato avanti il povero ministro Tria, l’uomo delle missioni impossibili, e il premier Giuseppe Conte il quale ha tenuto a far sapere che “ha a cuore la questione dello spread”. Ma finora non si ha notizia di passi indietro sostanziali sulla qualità della manovra. Si dice disponibile a ridurre il deficit 2019 di una manciata di decimi di punto percentuale spostando un po’ in là nell’anno (ma non oltre le elezioni europee) l’entrata in vigore delle misure qualificanti ma costose della sua Legge di bilancio. E nel frattempo i “numerini” si stanno prendendo la rivincita, attraverso la frenata della crescita. E diventa sempre più arrischiata l’idea della maggioranza italiana di tirare maggio senza troppi danni in attesa delle elezioni europee.
Dopo le elezioni, cambierà la Commissione, ma il probabile aumento di consensi per i partiti euroscettici sarà insufficiente a cambiare musica in Europa. Per la disperazione di chi si augurava (e ancor oggi si augura) una svolta solidale e la condivisione di risorse all’interno della comunità. E non una nuova ondata di austerità imposta da ritardi ed errori.
Come sempre, anche i piani migliori possono andar male se eseguiti da interpreti improvvisati, anche se molto abili sul video o ad annusare le richieste dei sondaggi. La democrazia non consiste nell’assecondare i desideri di una maggioranza, per giunta raggiunta sulla base di continui compromessi, bensì nella sintesi tra le richieste e l’effettiva capacità di esaudirle.