Bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno? Ottimisti e pessimisti hanno buoni argomenti per deporre i propri timori (e le proprie speranze) ai piedi dell’albero. Dalle borse, tanto per cominciare, arrivano segnali di forte scontento dopo un anno triste. La borsa di Tokyo è in ribasso del 18%. Poco meglio ha fatto la Cina. In Europa la maglia nera tocca a Francoforte -18,5%, ma Piazza Affari, sotto del 15%, ha ben poco da festeggiare. Il quadro non cambia a Wall Street, sotto del 7% abbondante. Anzi, nessuno prevede un 2019 in rosa dalle parti di Manhattan. Il listino dovrà fare i conti con una campagna utili meno brillante di quella dell’anno passato (“drogata” dagli stimoli di Donald Trump) e da buybacks probabilmente meno ricchi, anche per l’impatto del confronto con la Cina. E queste e altre considerazioni avrebbero consigliato, secondo molti analisti, una mano più morbida della Federal Reserve, come auspicato dal Presidente Usa. Al contrario, il board ha praticato il taglio già previsto, il quarto del 2018, e messo in cantiere due operazioni per il 2019.



Un grave errore? Non la pensano così alla Fed. La crescita, emerge dalle comunicazioni della banca centrale, può continuare anche nel 2019 a buoni livelli, come dimostra l’andamento dell’occupazione. L’inflazione? Grazie al calo del petrolio non è una preoccupazione. Anzi, consentirà di evitare gli interventi già previsti per la seconda parte dell’anno per raffreddare i prezzi.



Insomma, a fronte dei pessimisti che vedono la recessione (che prima o poi arriverà dopo 126 mesi al rialzo) dietro l’angolo, ci sono ottimisti che ritengono, alla luce degli ultimi dati, che la frenata sarà assai più morbida di quanto temuto.

Questo non depone a favore di una riscossa imminente delle Borse. Ma, a questo proposito, si ha ormai la sensazione che per Jerome Powell (oltre che per Mario Draghi) l’andamento delle Borse sia oggi meno importante di quanto non lo sia stato negli anni della lunga e difficile uscita dal tunnel della crisi: i listini azionari sono incoraggiati a salire quando si vuole spingere l’economia, ma non è questo l’obiettivo attuale della Federal Reserve.



Non è una situazione ideale per l’Italia che, al contrario di buona parte dell’Eurozona (basti pensare all’aumento dei tassi in Svezia o al clamoroso attivo di bilancio della Germania), ha urgente bisogno di attivare un meccanismo di crescita, cosa che difficilmente riuscirà con questa Manovra finanziaria o, in prospettiva, nei prossimi esercizi se non verrà modificato il Fiscal Compact. È facile prevedere che la litania dello scontro con la Commissione sia destinata a durare. Ma siamo a Natale, concediamoci qualche buona notizia. Chi ha avuto il fegato di puntare sui Btp nel momento più delicato, quello caratterizzato dalla comparsata di Luigi Di Maio sul balcone di palazzo Chigi, ha fatto un buon affare: allora il rendimento del Btp decennale italiano toccava il 3,8%. Oggi quel rendimento è sceso al 2,7% circa. Chi l’ha comprato allora si ritrova adesso una plusvalenza del 9%. Certo, al solito ad approfittarne sono stati i fondi pensione, le assicurazioni e i fondi esteri, mentre gli investitori individuali hanno disertato operazioni che, ai tassi attuali, erano molto interessanti, non escluso il Btp Italia.

Qualcosa del genere, dopo mesi di ribasso nelle Borse, riguarda anche le azioni italiane. Nessun listino offre cedole più generose del mercato italiano di questi tempi: il 4,35% medio (con punte eccellenti per titoli del calibro di Intesa o Enel) contro il 3,4% del listino tedesco o il 2,3% di quello francese. Il rapporto prezzo/utili è pari a 10,4 volte contro 11,8 della Borsa tedesca, 14,5 di quella francese o, addirittura, 17,7 volte l’americano S&P dove i dividendi si aggirano sul 2%. Numeri su cui riflettere visto che, almeno per un po’ di tempo, di Italexit non si parlerà più.