“Non dico che sia irricevibile, ma la proposta scaturita dal negoziato con la Commissione Ue sembra fatta apposta per mettere in difficoltà l’Italia”. A Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, la spada di Damocle delle clausole sull’Iva, che dal 2020 al 2022 potrebbero pesare per oltre 50 miliardi, preoccupano molto. E non bastano certo le rassicurazioni dei due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, a fugare i timori, perché “all’orizzonte si profila una situazione generale molto fosca, tra le incognite legate alla Brexit, il rallentamento congiunturale internazionale, la fine del Qe e un dicembre borsistico, con il pesante calo di Wall Street, che non si vedeva da almeno 30 anni”. Campiglio suggerisce anche una possibile via d’uscita: “Va messa in campo, anche sotto traccia, tutta la politica economica possibile a favore della crescita, del mondo produttivo e del lavoro, perché è l’unico modo per ritornare ad avere peso e voce in Europa”.
Partiamo dalle clausole sull’Iva per il triennio 2020-2022. Abbiamo già un’ipoteca sulla prossima legge di Bilancio?
Sì, fondamentalmente è proprio così.
E che ne pensa dell’accantonamento di 2 miliardi, che non si potranno spendere, nel caso gli obiettivi di finanza pubblica non siano centrati?
Da un punto di vista macroeconomico più che di accantonamento parlerei di accattonaggio: 2 miliardi sono una piccola scheggia. Che garanzia sono 2 miliardi? Zero. A cosa servono, a finanziare le feste a Bruxelles? Piuttosto è il principio a essere sconcertante: è il segnale chiaro che la Ue non si fida, e forse anche qualcosa in più, dell’Italia.
Come giudica modalità e condizioni dell’accordo frutto del negoziato con la Commissione Ue?
Dobbiamo riflettere sul fatto che nella dinamica della trattativa con l’Italia gli altri Paesi, pur essendoci potenzialmente alleati, non ci hanno dato alcuna sponda.
Perché, secondo lei?
Guardando agli ultimi dieci anni, i rapporti di forza all’interno della Ue sono profondamente cambiati. La Germania, per esempio, che nel 2007 pesava per il 19% del Pil globale europeo, compresa la Gran Bretagna, l’anno scorso è salita al 21%, e due punti percentuali in più di quota sul Pil europeo sono un’enormità. E’ evidente, quindi, che la voce della Germania è stata decisiva nella trattativa.
Che peso ha avuto la Germania, visto che in queste settimane tutti hanno notato il silenzio della Merkel?
Il negoziato si è svolto mentre la Germania è rientrata trionfalmente nel parametro del 60% di debito/Pil. L’anno scorso era già al 63,9%, ma fra il 2014 e il 2018, il periodo più importante a cui guardare per capire quello che è accaduto, la Germania è praticamente tornata in linea con i dettami dei Trattati. La Merkel, perciò, non ha bisogno di fare una pressione esplicita sui Paesi che gravitano intorno all’area tedesca. Infatti, per capire a fondo le ragioni di questa opposizione europea all’Italia, basta guardare ai tanti Paesi, vuoi perché entrati nella Ue di recente, vuoi perché hanno avuto una crescita molto elevata, che hanno un debito/Pil decisamente sotto il 100%: la Finlandia, uno dei governi più intransigenti con il nostro Paese, è al 61%, l’Estonia è all’8,7%, la Lituania al 40%, l’Ungheria al 73%, l’Austria al 78%. Sono tutti sotto l’80%. Fa eccezione la Francia, che potrebbe arrivare per la prima volta nella sua storia europea ad avere un debito/Pil del 100%, visto che nel 2017 era al 98,5%, ma la Francia non è solo un Paese fondatore, come noi, della Ue, è l’asse d’acciaio dell’Unione.
E questo che cosa significa?
L’Unione europea è ormai una costruzione che sempre meno risponde agli ideali e ai valori originali, e questo alla fine si fa sentire. Pensi solo ad alcuni temi ormai finiti praticamente nel cassetto, anche dal punto di vista economico, come il fondo europeo per la disoccupazione. E’ acqua passata. Il punto è che, oltre alla Germania che ha guadagnato spazi di Pil, gli altri paesi della cosiddetta Lega Anseatica, nome che non promette bene, hanno condizionato il contesto complessivo in cui si è svolto il negoziato tra governo italiano e Commissione Ue. Un contesto in cui noi abbiamo portato a casa un accordo che è una trappola.
Che conclusioni ne trae?
Clausole di salvaguardia sull’Iva come quelle richieste dalla Commissione sono clausole che mettono il nostro Paese in ginocchio, alla luce della situazione che subiamo da 10 anni. E mi domando? Sono consapevoli a Bruxelles di tutto questo oppure non lo sono?
Che cosa risponde?
Se sono consapevoli di quello che hanno fatto, è come se cercassero di accompagnarci alla porta.
Salvini e Di Maio, però, ripetono che le clausole non scatteranno. Ma potranno mantenere questa promessa con un Pil che crescerà dell’1% anziché dell’1,5%? Non c’è il rischio che alla fine i conti non tornino e le clausole sarà difficile disinnescarle?
Direi che in questo frangente c’è un atteggiamento politico che andrebbe messo in campo. E’ chiaro che siamo un ospite poco gradito della Ue, ma è giusto ricordare all’Europa che se l’Italia venisse accompagnata alla porta, le conseguenze sarebbero davvero pesanti per tutti. Più che questi scenari politici, però, a me oggi interessa che il nostro Paese cresca. La manovra del governo, nelle sue intenzioni, vuole aiutare chi ha patito di più le conseguenze economiche di questi dieci anni così travagliati. Ma il quadro continua a non essere incoraggiante, soprattutto dal lato della crescita, perché con questo +1%, noi siamo di nuovo non solo il fanalino di coda, ma un Paese che perde sempre più peso in Europa. Tenga conto che in dieci anni il nostro Pil ha perso l’1,2% sul totale della Ue, il che significa che i tre quarti di quel che ha guadagnato la Germania li ha sottratti proprio a noi.
Cosa deve fare, allora, l’Italia?
In questa fase, se si ritiene di continuare all’interno di un progetto europeo, la strada della crescita si fa più complicata. Ma, a bocce ferme, penso che sugli investimenti destinati ad alcune opere infrastrutturali di base per il Paese sarebbe opportuno avviare da subito una trattativa per trovare una soluzione all’impasse. Anzi, comunque vada il destino della Ue e dell’area dell’euro, non dobbiamo appoggiarci a nessuno, dobbiamo fare da soli, perché ormai è chiaro che non ci daranno mai una mano, o meglio, ce la daranno solo quando avremo bisogno.
In buona sostanza, piove sul bagnato. Come uscire dall’angolo?
Capisco che politicamente non si possa annunciare, ma tutta la politica economica per la crescita, anche sotto traccia, va fatta, perché è l’unico modo per ritornare a crescere e ad avere peso e voce in Europa.
Faccia un esempio concreto.
Industria 4.0, con il suo ammortamento accelerato, ha favorito moltissimo il rinnovo di impianti e macchinari, e noi di questo abbiamo davvero bisogno. Innanzitutto, per il lavoro e poi per andare a competere sugli stessi mercati in cui tutta l’area del Nord Europa sta lavorando da anni. Questa “mobilitazione economica” diventa fondamentale; non occorre sbandierarla, ma va perseguita. Perché lo spread prima delle elezioni era intorno a 120-150 e se oggi è sì sceso a 250, temo che rimarrà su questi livelli a lungo. Noi, per ora, abbiamo guadagnato respiro grosso modo per un anno.
Come sfruttare questo tempo?
E’ il momento che le forze politiche che hanno giustamente cercato di dare respiro alle famiglie fortemente colpite da dieci anni di crisi, adesso lo diano, e continuino a darlo, al mondo produttivo, da cui peraltro dipende l’offerta di lavoro. Il reddito di cittadinanza, dunque, per avere una sua consistenza vera, deve essere accompagnato da richieste di lavoratori da parte delle imprese. E parliamo di lavoratori che, grazie all’innovazione, dovranno essere qualificati, per cui vanno affiancati e incentivati i progetti che favoriscono la riqualificazione dei lavoratori.
Resta il fatto che il 2019 si preannuncia come un anno di generale rallentamento dell’economia…
Le incognite sulla Brexit, un dicembre che non si vedeva da 30 anni con la caduta di Wall Street e lo sgonfiamento della bolla del Qe dipingono un quadro generale che non è favorevole per nessuno, nemmeno per la Germania. Mi stupisce, però, in negativo, il fatto che l’Italia venga valutata non in un’ottica europea, ma dal punto di vista degli egoismi nazionali: ogni Paese, cioè, guarda al proprio interesse e basta. E questo dato di fatto fa emergere un quadro un po’ sbiadito del progetto europeo. Ma anche i Paesi nordici sono cresciuti perché l’Unione europea è un mercato, escluso il Regno Unito, da 450 milioni di persone. Non sono bruscolini. Attenzione, però. se perde anche l’Italia, la Ue scende a 390 milioni. Quindi, mettiamoci nelle condizioni di poter passare dalla fase delle richieste con il piattino in mano a una fase più propositiva, puntando forte su crescita, imprese e lavoro. Dobbiamo rilanciare l’Italia per rilanciare l’Europa.
(Marco Biscella)